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S. S. Cohen

Il 3 febbraio del 1936, di mattina presto, osservai  la mia “gualdrappa” rotolare per due miglia e mezzo su una strada dissestata, dalla stazione di Tiruvannamalai al Ramanashramam. Due notti insonni nel treno da Bombay mi avevano stancato il corpo e la mente. La mia testa era affetta da capogiri e i miei sensi erano confusi. Speravo in po’ di riposo all’asram, ma quando arrivai non vidi nessuno.

All’improvviso apparve un uomo corpulento, un gigante, i capelli spettinati e le labbra rosso scarlatto per il continuo masticare foglie di betel e nocciole. Era seduto sul pavimento davanti ad una foglia-piatto quasi vuota, mi chiamò con il più gentile cenno del capo e con il più dolce sorriso che si possa immaginare: “Sei tu Mr. Cohen? Svelto, seguirmi prima che il Maharshi esca per la sua passeggiata” disse a voce alta.

Obbedii, entusiasta di poter vedere il grande saggio che mi aveva perseguitato notte e giorno per tre lunghi mesi. Fui accompagnato in una piccola sala da pranzo e alla porta mi fu chiesto di togliermi le scarpe. Mentre stavo slacciandomi le scarpe i miei occhi caddero su una piacevole figura di un uomo di mezza età che non indossava altro che un koupin[1], con occhi così tranquilli come raggi di luna.

A quei tempi era usanza dell’asramam onorare il nuovo arrivato permettendogli di prendere il suo primo pasto seduto di fronte al Maharshi. Non feci caso ai dolci, che altrimenti la mia mano avrebbe preso, poiché rivolsi completamente l’attenzione alla pace che esprimeva il volto di Sri Bhagavan.

Aveva appena finito di mangiare e stava lentamente rollando una foglia di betel per masticarla, come se volesse donarmi più tempo in sua compagnia, quando un uomo entrò da una porta sul retro, che consentiva il passaggio alla piccola cucina e disse qualcosa a bassa voce, in Tamil. Allora il Maharshi si alzò, mi rivolse uno sguardo come per dire che tutto andava bene e lasciò la stanza. Frettolosamente ingoiai la metà di un dolce, trangugiai una tazza di the e andai fuori in cerca della stanza nella quale era stato portato il mio bagaglio. Nel frattempo qualcuno annunciò che Sri Maharshi stava andando nella Darshan Hall, così mi affrettai per raggiungere direttamente la Hall, con indosso ancora il cappello e il mio ampio vestito. Dietro di me camminava in modo esageratamente lento, sebbene con passi decisi, la solenne figura del Maharshi.

Ero solo con lui nella hall. Gioia e pace pervasero il mio essere,  non avevo mai provato prima un così delizioso sentimento di purezza e di benessere per la semplice vicinanza di un uomo. La mia mente era già in profonda contemplazione di lui, ma non di lui come corpo, sebbene fosse squisitamente formato e dotato di belle caratteristiche fisiche, ma bensì come un Principio incorporeo che riusciva a farsi sentire così profondamente nonostante l’handicap di d'indossare un pesante veicolo materiale. Quando dopo un po’ mi risvegliai all’ambiente circostante, lo vidi guardarmi con i suoi occhi grandi e penetranti, che sorridevano felici di un’innocenza infantile trasmettendo divina serenità.

Bhagavan era felice di ascoltare devoti e visitatori, era di salute robusta per un uomo di mezza età e prestava molta attenzione nel rendersi disponibile ai devoti in quasi tutte le ore del giorno.

Gli anni dal 1936 al 1938 furono veramente felici: potevamo radunarci intorno al suo divano e parlargli così intimamente come ad un padre amato, raccontargli i nostri guai e mostrargli senza impaccio le nostre lettere. Dopo le otto  di sera, quando nella Hall vi erano soltanto i residenti locali, sedevamo intorno a lui per una “chiacchierata” familiare fino alle dieci.

Bhagavan ci raccontava storie dei Purana o della vita dei santi, manifestando pienamente le emozioni quando descriveva scene di grande devozione o le grandi tragedie umane a cui era estremamente sensibile. Allora versava lacrime che inutilmente tentava di nascondere.

In un’occasione, Bhagavan recitò a memoria un poema di un santo Vaishnava in cui ricorrevano le parole “Chiudimi nel tuo abbraccio, o Signore”. Le braccia di Bhagavan si univano in un cerchio intorno al vuoto davanti a lui, i suoi occhi brillavano di ardore devozionale, mentre la sua voce tremava per i singhiozzi soffocati che però non sfuggivano alla nostra attenzione. Era affascinante vederlo recitare le parti che narrava e ciò rendeva euforico il nostro stato d’animo.

Di notte, i discepoli ed i suoi attendenti dormivano sul pavimento della Hall. Il sonno di Bhagavan era molto leggero, ogni tanto si svegliava e quasi sempre trovava accanto a lui un attendente completamente sveglio a cui diceva alcune parole per poi riprendere a dormire.

Si svegliava molto presto e alle cinque del mattino, quando i cantori dei veda venivano dalla città,  lo trovavano a chiacchierare con voce sommessa e controllata.

Il parayanam[2] durava circa un’ora; si rimaneva tutti in silenzio mentre Bhagavan sedeva, sempre a gambe incrociate, completamente raccolto in sé stesso.

Poi si avviava verso la collina e ritornava alle sette e trenta circa, alle nove la Darshan Hall era già piena  di devoti e visitatori: uomini, donne e bambini. L’ora del parayanam era il momento migliore del giorno per la meditazione, in quanto la mente non era ancora completamente emersa per dirigersi verso l’abituale sfrenatezza e  Bhagavan splendeva nella beatitudine del suo samadhi che permeava la Hall e ispirava la meditazione dei devoti.

Bhagavan usciva sempre agli stessi orari: alle nove e quarantacinque per alcuni minuti; poi alle undici, per il pranzo, seguiva la passeggiatina di mezzogiorno fino a Palakottu.

Al pomeriggio, alle sedici e quarantacinque, dopo il Veda parayanam del pomeriggio, s’incamminava verso la collina Arunachala; infine usciva alle diciannove per la cena.

Le persone che venivano a visitare il centro in un flusso costante, chiedevano aiuto per trovare la calma e la serenità in una vita piena di tensioni. Ognuno presentava i suoi problemi e domandava consigli. I temi di discussione, anche se un po’ particolari e riferiti alla situazione di ciascuno erano per tutti una sorgente di studio molto utile. Osservare il Maestro, la sua grande capacità di affrontare le problematiche di tutti, era una sadhana (pratica spirituale) di per sé.

La risposta ultima a tutte le domande era sempre la stessa e cioè: “Scopri chi sei”.

Sri Bhagavan ascoltava attentamente i problemi della persona e poi, lentamente, lo guidava alla sorgente di tutti i problemi: la consapevolezza del Sé, la cui realizzazione, sosteneva, è la panacea universale.

Quando un’udienza veniva sospesa, diventava spiritosamente autobiografico, raccontava della sua scuola primaria, della sua vita in famiglia e delle varie esperienze avute sulla collina con sadhu e devoti.

Con il passare del tempo, la disposizione d’animo e le idee del Maestro si stabilizzarono radicalmente in me, cessai di porgli domande anche nelle sue passeggiate fuori dall’asramam, cosa che usavo fare nei primi sei mesi di permanenza.

Un giorno riferii a Bhagavan le conclusioni a cui ero pervenuto al termine di quei primi sei mesi. Egli mostrò la sua condiscendente approvazione con un gesto della mano e disse:”Molto è in tuo potere, il resto deve essere lasciato interamente al Guru, che è l’oceano di grazia e compassione che risiede nel cuore di tutti i cercatori come il proprio Sé.

I lavori nella mia capanna nel giardino di Palakottu terminarono il 4 aprile del 1936, quel giorno completai anche le disposizioni per la cerimonia di inaugurazione, qui conosciuta come griha pravesham[3], che si sarebbe svolta il giorno dopo.

Gli invitati si riunirono nella mia capanna e a mezzogiorno arrivò anche il Maestro che si accovacciò come gli altri sulla stuoia che copriva il pavimento, rifiutando la speciale sedia che avevo preparato per lui. Dopo la cerimonia, Bhagavan uscì. Io lo seguii a distanza, dopo aver aspettato che i devoti iniziassero a sparecchiare, mi accostai a lui: “Bhagavan…” - iniziai -“Tu hai dato una casa al mio corpo, ora ho bisogno della tua grazia per dare una casa eterna al mio spirito per il quale ho spezzato tutti i legami umani venendo qui.”

Egli si fermò all’ombra di un albero, fissando silenziosamente per alcuni secondi la calma acqua della cisterna e replicò: “La tua ferma convinzione ti ha condotto qui, dov’è il luogo del dubbio?” “Dov’è il luogo del dubbio, in verità?” riflettei.

Passarono tre anni dalla cerimonia del griha pravesham, e un giorno che lo incontrai vicino alla mia capanna gli dissi: “Bhagavan, sento una forte urgenza di andare in Yatra (pellegrinaggio). Sento di aver bisogno di un cambiamento, di dover passare alcuni mesi in luoghi sacri.” Egli sorrise approvando, si informò della data e del giorno della partenza e mi domandò se avevo già individuato i vari luoghi da visitare e le sistemazioni per il soggiorno. Estremamente toccato dalla sua sollecitudine, risposi che sarei andato come un sadhu e che per le sistemazioni, avrei avuto fede nella sorte,

Per tre mesi circa rimasi sdraiato su una stuoia a Cape Comorin, alleggerito dalla tensione mentale causata dalla visione fisica del Maestro. Mi immersi in riflessione sul suo beato silenzio e la sua tranquilla armonia. La calma della sua mente mi perseguitava ovunque andassi: nella bellezza della giovane vergine Dea che splendeva come una gemma nel tempio, delle dune di sabbia sulle rive del vasto oceano blu, dei villaggi di pescatori e delle infinite distese di piantagioni di cocco che si estendevano dal litorale all’interno del Capo.

Sentii la sua influenza nel più profondo della mia anima e gridai: “Oh Bhagavan, quanto potente tu sei e quanto sublime e penetrante è l’immacolata purezza della tua mente! Con tenere emozioni noi, tuoi discepoli, pensiamo alle tue incomparabili qualità, alla tua gentilezza; al tuo sereno e adorabile volto; alla calma, ai sorrisi rinfrescanti; alla dolcezza delle parole che escono dalla tua bocca; allo splendore del tuo amore che tutto abbraccia; al tuo equanime vedere l’uno o l’altro, malati o animali randagi che siano.”

Ombre della Sera.

Negli anni tra il 1948 e il 1950 vidi le ombre delle sera riunirsi e chiudersi sul Maestro. L’avanzare dell’età gli causò una serie di incidenti, prima una caduta, poi un singhiozzo nervoso che durò molti giorni, un reumatismo articolare, e in ultimo, un tumore maligno che a poco a poco divorava la carne del suo braccio sinistro, avvelenava il suo sangue,. Infine dovetti vedere calare il sipario sulla sua vita immacolata.

Diario di un devoto

22 Febbraio 1949

Circa due settimane fa, il dottore dell’asram, Dr. Shankar Rao, assistito dal Dr. Srinivasa Rao, rimosse una piccola crescita tumorale cresciuta sul gomito sinistro del Maharshi, da allora è rimasto bendato; ma oggi le bende sono state rimosse e la ferita lasciata libera. Si presume sia guarita.

27 Marzo 1949

Il grumo che è stato rimosso dal gomito sinistro del Maharshi lo scorso mese che si pensava guarito, è nuovamente iniziato a crescere, tanto che l’eminente chirurgo, Dr. Raghavachari, è venuto oggi da Madras per rimuoverlo. Il chirurgo ci ha detto che l’intervento precedente era riuscito e che anche l’ultima cellula della crescita tumorale era stata rimossa. Non si aspettava che il timore riapparisse.

4 Dicembre 1949

Questo è il giorno del Deepam, il giorno più sacro per gli indiani del sud[4]. Il sacro segno di fuoco sarà acceso questa notte in cima ad Arunachala. Questa sera Sri Maharshi è seduto nella veranda nord nella Darshan Hall. Intorno a lui centinaia di devoti siedono accovacciati. Questo giubilo non è senza una punta di dolore. La salute di Sri Maharshi ci accorderà un altro Deepam o questo potrebbe essere l’ultimo? Quando lo vediamo seduto, sempre fresco e risplendente come prima, in attesa, con lo sguardo fisso sulla cima della sua amata Arunachala, non possiamo che essere ottimisti del suo recupero. Il corpo, che è stato colpito da una malattia maligna e tagliato molte volte dal bisturi del chirurgo, bruciato dal radio, adulterato da ogni sorta di sostanze medicinali, non reca tracce di tormentose sofferenze, si vede nello splendore dei suoi occhi e dalla giocosità delle espressioni del suo volto.

Diario di un Devoto [canadese]

L’ incontro con S.S. Cohen

Ieri, mentre aspettavo che arrivasse Sri Kunju Swami e Sri Natesanper per continuare le registrazioni dei diversi parayana, Bhagawat ed io cogliemmo l’occasione di far visita a S.S. Cohen che aveva ottantatre anni ed era malato e debole. Aveva al suo servizio un servitore Tamil che l’aveva appena aiutato ad uscire dalla sua stanza facendolo sedere su una sedia sotto un banano. Anche noi prendemmo due sedie e sedemmo di fronte a lui.

Mentre il suo attendente lo aiutava a sedersi gli disse qualcosa, che immediatamente ci tradusse con un guizzo di divertimento negli occhi e un sorriso sul viso: “Gli stavo appunto dicendo che dovevate osservarmi attentamente ora, perché da qui a trent’anni anche voi sarete nella mia stessa condizione: vecchi, deboli e malati” Di fronte alle sue condizioni fisiche, questa battuta di spirito mi mise a mio agio e non potrò mai dimenticare di aver visto un uomo così vecchio e debole  lasciar trasparire tanta leggerezza e buon umore.

Gli presentammo il nostro opuscolo sull’asram: ‘Le dimore di Sri Bhagavan’  che stavamo cominciando a diffondere nella città di New York, nella Nuova Scozia[5] e in Canada.

Poi gli offrii uno dei nostri barattoli da sei once di succo d’ananas Dole, che custodivamo gelosamente. Lo bevve con soddisfazione. Bhakta Bhagawatt, iniziò a descrivergli la sua vita e le sue esperienze alla Presenza di Sri Bhagavan. Mentre apriva il suo cuore al discepolo più anziano del Maharshi, si piegò e toccò i suoi piedi più volte e chiese le sue benedizioni.

“Non hai bisogno delle mie benedizioni,” disse S.S.Cohen. “Le benedizioni fluiscono sempre da te”. Poi Cohen continuò, come se parlasse a se stesso: “Sono vecchio ora. Non ho desiderio di fare nulla.” Fece una pausa poi disse: “Sai, un’indescrivibile pace avanza lentamente e uno neppure la nota.”

E’ ovvio che si sta avvicinando alla morte, ma non era triste e non permetteva a nessuno di essere triste per questa considerazione. Poi  mi disse, con lo stesso guizzo di divertimento e lo stesso sorriso di prima: “Se vuoi portarmi in Canada, dovrai pagare tutte le spese e non sto dicendo soltanto del prezzo del biglietto d’aereo, dovrai pure pagarmi la sepoltura!” Sorrise.

Più tardi quella sera, quando superai la sua stanza, la porta era aperta e una debole luce brillava dentro. Sedeva, lì, solo e tranquillo, gli occhi chiusi, stando in pace.

Sedeva come aspettando di lasciarsi dietro il mondo, prossimo alla fine. Che lezione per un giovane aspirante come me!

- Di Dinesha Dayalu

Il Maharshi lasciò il corpo il 14 aprile del 1950 alle 8.47 di sera.

“A quelli che temevano che la sua guida potesse terminare con la morte, rispose seccamente: “Date troppa importanza al corpo.’”

Ora, come allora, Egli guida chiunque gli si avvicini e sostiene chiunque gli si abbandoni.

A chi lo cerca è qui.

Morte e Agonia

Una volta siamo nati, ma non c’è nulla di più certo, tra tutte le incertezze della vita, che prima o poi la morte verrà.

Essa viene a bussare alla nostra porta, o alle porte dei nostri vicini o a quelle delle persone che ci sono più care. Spesso rimaniamo sorpresi della venuta della morte e ci gettiamo in un vortice di confusione e di dispiacere.

Perché questo evento che è inevitabile come la luce del mattino, getta un’ombra di oscurità tutto intorno?

Anche se, tradizionalmente, genti di tutte le nazioni, si fidano delle rivelazioni dei loro veggenti e profeti per chiarire la confusione riguardo la morte, una traccia di meraviglia e timidezza fermenta perfino nel cuore del più fedele devoto.

La morte velata dal mistero, eterno fardello di poeti e filosofi, di scritture e di dogmi, non ha nulla a che fare con l’oblio o con la perdita. Per quelli dotati di giusta comprensione e intensa aspirazione di conoscere cosa sia la morte, al momento del preannuncio la porta della morte si aprirà rivelando l’eterna gloria di immortalità e beatitudine.

Sri Maharshi rinacque in questo mondo di eterna Realtà del Sé direttamente dal grembo della morte, durante una breve, intensa esperienza che ebbe al suo diciassettesimo anno di vita. Da allora in poi, si stabilì nella realizzazione del suo vero Sé e l’illusione della morte per lui svanì per sempre.

A seguire alcune parole, riportate anche nei Dialoghi con Sri Ramana Maharshi che disse, dal profondo della sua esperienza, sulla morte e il morire

Il dolore non è indice di vero amore. Esso tradisce l’amore per l’oggetto, per la sua forma. Quello non è amore. Il vero amore si mostra dalla certezza che l’oggetto d’amore è nel Sé, che è auto-esistente. Non ci sarà pena se si rinuncia alla visione fisica e se la persona esiste come il Sé.

Non c’è né nascita né morte. Ciò che nasce è soltanto il corpo. Il corpo è la creazione dell’ego. L’ego non è percepito senza il corpo, è sempre identificato con il corpo.

Se un uomo considera di essere nato, non può evitare la paura della morte. Lasciatelo scoprire se veramente nacque o se il Sé ha nascita. Scoprirà che il Sé esiste sempre, che è il corpo che è nato a dissolversi nel pensiero e che l’apparizione del pensiero è la strada verso tutti i mali.

Cerca da dove i pensieri sorgono. Allora rimarrai nel sempre-presente, profondo Sé, e sarai libero dall’idea della nascita e dalla paura della morte.

Ricorda lo stato di sonno. Mentre dormivi eri consapevole di qualcosa? Se tuo figlio o il mondo sono reali, perché non erano presenti con te nel sonno?

Non puoi negare la tua esistenza nel sonno. Allora non puoi nemmeno negare di essere felice. Tu ora sei la stessa persona che parla e a cui sorgono dubbi. Non sei in felice intesa con te stesso. Ma nel sonno eri felice. Cosa è accaduto nel frattempo che ha interrotto quella felicità  che sperimentavi nel sonno? E’ il sorgere dell’ego. E’ il nuovo arrivato nello stato di jagrat (veglia). Non c’era l’ego nel sonno.

La nascita dell’ego è la nascita della persona. Non c’è altro genere di nascita. Chiunque sia nato, è destinato a morire. Uccidi l’ego: non vi è timore che la morte si ripresenti per chi è morto una volta. Il Sé resta sempre anche dopo la morte dell’ego. Ciò è Benedizione, è Immortalità.

Allenare la mente ci aiuta a sopportare dolori e lutti con coraggio. Ma si dice che la perdita di sé stessi sia la peggiore di tutti i dolori. Pace è verità, la sofferenza in alcune occasioni può essere lenita dall’associazione con il saggio.

Sri Bhagavan disse:

“Lo shock della paura della morte condusse la mia mente all’interno e dissi mentalmente a me stesso, realmente, senza formulare parole: “Ora questa morte è venuta, cosa significa? Chi sta morendo? Questo corpo muore, ma con la morte del corpo “io” sono forse morto? E’ il corpo io?

Il corpo muore, ma lo Spirito che lo trascende non può essere toccato dalla morte. Ciò significa che “io” sono lo Spirito immortale. Tutto ciò non fu soltanto un debole pensiero; esso balenò intensamente davanti a me come verità vivente che percepii direttamente.

Da quel momento in poi l’Io o Sé focalizzò l’attenzione su se stesso. La paura della morte svanì una volta per tutte. L’assorbimento nel Sé continuò ininterrottamente.”


[1] Perizoma di cotone

[2] lettura delle Scritture sacre.

[3] Griha Pravesh è una cerimonia svolta in occasione del proprio primo ingresso in una nuova casa. Una volta che la casa è pronta, la famiglia vi si trasferisce in un giorno di buon auspicio che viene determinato da calcoli astrologici.

[4] Deepam è la festa più antica del sud dell’India ed è anche la più importante ed elaborata. La festa cade  festa capita nel mese tamil di karthigai, quando le Pleiadi (Krittika: le sette sorelle) si trovano in posizione ascendente ed è un giorno di luna piena.

[5] La Nuova Scozia è una provincia federale del Canada che si affaccia  sull'Oceano Atlantico.