Un saggio dell’età dell’oro
Premessa
«Sono nato a Tiruchuzhi (Tirucculi), un villaggio del distretto Ramnad, il 30 dicembre del 1879. Sotto ispirazione Divina ho lasciato, a fin di bene, la mia casa nativa all’età di diciassette anni alla ricerca di Arunachala e sono giunto a Tiruvannamalai nel 1896».(1) Così si apre il testamento di uno dei più grandi Maestri dell’india moderna.
Sedere accanto a questo Maestro - qualcuno ha scritto - portava alla consapevolezza che noi non siamo completamente uomini, in quanto l’umanità si realizza nella sua pienezza proprio quando, come nel suo caso, la natura umana diventa simbolo e tempio della Perfezione spirituale.
Ramana è considerato un «tracciatore di sentieri». La Ghita afferma che l’umanità non è mai lasciata orfana e che il Mistero supremo trova sempre un vaso in cui risuonare in modo intelligibile ad orecchie ben disposte all’ascolto. Ramana è uno di questi centri di risonanza e, in epoca moderna, ha indicato una via diretta alla realizzazione basata sulla sua esperienza della Realtà suprema, una realizzazione eccezionale in quanto si presentò a lui non cercata, né voluta.
«Fu all’incirca sei settimane prima di lasciare per sempre Madurai che avvenne il grande cambiamento nella mia vita e fu improvviso. Sedevo tutto solo in una camera al primo piano della casa di mio zio. Era raro che mi ammalassi e anche quel giorno la mia salute era perfetta, ma all’improvviso fui colto da una violenta paura della morte. Non c’era nulla nel mio stato di salute che potesse giustificarla e non cercai di spiegarla né di scoprire quale fosse il motivo del suo sopraggiungere. Sentii solo in me le parole: “Sto per morire” e cominciai a pensare al da farsi. Non mi venne in mente di consultare un dottore, i miei familiari o i miei amici; sentii che dovevo risolvere il problema da solo e subito.
Lo shock della paura della morte mi rese introspettivo. Dissi fra me, ma senza formulare effettivamente le parole: “Ecco è venuta la morte; cosa significa? Cosa sta morendo? È il corpo a morire”. Subito rappresentai la scena della mia morte: mi adagiai con le membra stese rigidamente, come se fosse già cominciato il rigor mortise, per dare maggiore consistenza alla ricerca, imitai un cadavere.
Trattenni il respiro e serrai le labbra affinché non potesse uscirne alcun suono, né potesse essere pronunciata la parola “io” o qualsiasi altra. “Bene”, dissi fra me: “questo corpo è morto”. Sarà portato al campo crematorio e là bruciato e ridotto in cenere. Ma con la morte di questo corpo, sono io morto? Il corpo è l’io? Questo corpo è silente e inerte, ma sento tutta la forza della mia personalità e perfino la voce di quell’”io” dentro di me, indipendentemente da esso. Così, Io sono lo Spirito che trascende il corpo. Il corpo muore, ma lo Spirito che lo trascende non può essere toccato dalla morte. Ciò significa che Io sono lo Spirito immortale”. Tutto questo non era da considerare uno scialbo pensiero; lampeggiava vivido in me come verità autentica che percepivo direttamente, quasi al di là dal processo cognitivo. L’“Io” era qualcosa di molto reale, la sola cosa vera in quello stato e tutta l’attività conscia associata al mio corpo era incentrata su quell’“io”. Da quel momento in poi l’“io” o Sé concentrò l’attenzione su se stesso in maniera potente e affascinante. La paura della morte era svanita per sempre. Da allora in poi l’assorbimento nel Sé continuò ininterrottamente.
Vediamo come Ramana colse, fin dalla prima giovinezza, il frutto più elevato ricercato dai grandi saggi di ogni tempo: la diretta conoscenza (jnana) del Sé senza una lunga sadhana preliminare, senza alcuna iniziazione o insegnamento. Il suo stato coscienziale e la sua esperienza, lo trovò, in seguito, descritto nel Vedanta Advaita
«Non avevo letto nessun libro eccetto il Periapuranam, la Bibbia e brani del Tayumanavar o Teravam. Il mio concetto di Ishvara era simile a quello trovato nei Purana; non avevo mai sentito parlare di Brahman, samsara, ecc. Non sapevo ancora che c’è un’Essenza o Reale impersonale alla base di tutte le cose e che Ishvara e io siamo identici a essa. Più tardi, a Tiruvannamalai, quando ascoltai la Ribhu Gita e altri libri sacri, appresi che i testi analizzavano e denominavano ciò che io avevo sentito intuitivamente senza analisi né nomi »[2].
La sperimentazione della Realtà esternamente ai lignaggi tradizionali, il riconoscimento da parte di questi, il ravvisare di Ramana che questi lignaggi insegnavano la sua stessa esperienza, dimostra che la conoscenza tradizionale è viva e può mostrarsi ovunque, a prescindere dai lignaggi attivi e riconosciuti, anche se l’eccezionalità dell’esperienza del Maharshi sembra confermarci la rarità di questa possibilità.
La grandezza di Ramana sta, forse, anche in questo: da un lato ha riconosciuto l’autorità della tradizione non duale, pur non formandosi all’interno della stessa, dall’altro ha lasciato una traccia indelebile di libertà per ogni ricercatore, come lui, chiunque sia determinato a realizzare la propria natura ultima può giungere al successo, quale che sia l’etnia, la religione, la filosofia, la cultura di appartenenza.
Vediamo come Osborne considerò il medesimo argomento:
«Fu quindi un nuovo e integrale sentiero che il Maharshi aprì a coloro che si rivolgono a lui. L’antico sentiero della ricerca del Sé era puro jnana-marga, che poteva essere seguito in silenziosa meditazione dall’eremita, e in più era stato considerato dai Saggi inadatto a questo kali-yuga, questa età spiritualmente oscura in cui viviamo. Ciò che Bhagavan fece non fu tanto ripristinare il vecchio sentiero quanto crearne uno nuovo adatto alle condizioni della nostra era, un sentiero che può essere seguito in città o in casa non meno che in una foresta o in un romitaggio, con un periodo di meditazione ogni giorno e il costante ricordo durante le attività della giornata, con o senza il sussidio di osservanze esterne »[3].
Anche se molti ritengono che Ramana riconobbe il Vedanta come una descrizione della sua esperienza, altri reputano che la sua esperienza non collimi perfettamente con l’Advaita Vedanta, ma piuttosto che si sia allontanato dall’insegnamento di Shankara. Il celebre orientalista Oliver Lacombe, alla domanda se l’istruire di Ramana fosse quello di Shankara, da buon advaitin rispose:
«L’insegnamento del Maharshi è solo un’espressione della sua esperienza e della sua realizzazione. Altri ritengono che collimi con quello di Sri Shankara».
La figura del Maharshi non può essere compresa solo da un punto di vista metafisico, né può venire compresa solo da un punto di vista devozionale, considerando la venerazione dei suoi devoti. Un maestro spirituale, un saggio rishi, un santo, un filosofo… egli era tutte queste cose e, per certi versi, molto di più. Agli occhi di un devoto, la saggezza era solo un aspetto, quasi un accessorio che trapassava senza soluzione di continuità nella santità più elevata.
I fatti terreni della vita di Ramana servono come semplice cornice in cui incastonare l’essenziale del suo insegnamento spirituale, così come è stato tramandato da quei devoti che ne hanno trascritto le parole, non di rado, riviste dallo stesso Ramana. Occorre però ricordare che è solo un guscio esterno, transitorio rispetto all’essenza che Ramana è. Il vero Ramana, ciò che muoveva la profonda devozione e dedizione alla sua figura, e che ad oltre cinquanta anni dalla sua morte richiama ogni anno migliaia di aspiranti occidentali e orientali, non era certo il suo corpo di carne e ossa, ma ciò che lo abitava. L’Assoluto che si manifestava in quel corpo irradiando lo spazio circostante, ha portato più di un devoto a credere che il semplice sedere accanto a Ramana bastasse ad avvicinarsi al porto della liberazione ultima. Vicino a lui i devoti più intimi, quasi portati da una mano possente e silenziosa, s’immergevano nel samadhi con straordinaria semplicità. La fama della sua santità fu tale tale che alcuni gli inviavano cartoline postali con la descrizione delle proprie afflizioni, nella convinzione che sarebbe bastato che le stesse fossero portate alla sua attenzione per dileguare ogni affanno.
Ramana è stato avvicinato da potenti quali Raja e Maharani, grandi dotti dell’oriente e dell’occidente; alcuni suoi devoti erano dei veri maestri con un proprio seguito di numerosi seguaci. Da Lui si è recata gente d’infima casta, paria, davanti a Lui è passata una folla immensa d’umanità anche solo per ricevere uno sguardo. Non solo esseri umani, ma anche animali, mucche, volpi, scoiattoli si sono approcciati a Ramana. Lui mediante il semplice essere se stesso ha impartito un insegnamento spirituale impareggiabile; si narra addirittura il caso di una mucca, Lakshmi, che ottenne prima il samadhi e infine la liberazione.
Possiamo considerare Ramana come una figura dell’india moderna. abbiamo di lui, foto, film, registrazioni dei suoi discorsi, inni di lode al sacro monte di Arunachala, istruzioni lasciate ai devoti e gli stessi ricordi dei seguaci.
Ramana è una pietra miliare della storia del mondo; una di quelle figure che il mito tramanda come fondatori, in epoche buie, di quelle sorgenti di luce che oggi illuminano il mondo.
IL PRINCIPIO
Vediamo ora che cosa significa in dettaglio Bhagavan Sri Ramana:
Bhagavan (4) è un vocativo che significa beato, santo ed è il titolo con cui ci si rivolge al Signore, agli dei, semidei o santi
Maharshi è un termine tamil che rende il sanscrito maharishi; nome composto da maha: grande e rishi: veggente. I rishi sono coloro che nella tradizione indiana hanno contemplato i Veda, la sapienza essenziale e che hanno poi redatto le scritture sacre in base a ciò che avevano contemplato.
Ramana è abbreviazione di Venkataraman che è il nome con cui familiarmente ci si rivolgeva a Ramana.
Formalmente era stato chiamato Venkateshwaram in onore alla divinità a cui era devota la famiglia. Alcuni si rivolgono a Ramana premettendo al nome la particella Srì che significa prosperità, fortuna; anche santo, benedetto, appellativo dei Maestri (5). L’uso di Sri, Bhagavan e Maharshi per rivolgersi a Ramana indicano l’altissima considerazione che avevano di Lui i devoti.
Venkataraman nacque il 30 dicembre del 1879 a Tirucculi nel Tamil Nadu, nel sud dell’India. Suo padre si chiamava Sundaram Aiyar, la madre Alagammal, aveva un fratello maggiore Nagasvami, uno minore Nagasundaram e una sorella Alamelu.
La sua famiglia apparteneva alla casta dei brahmini e il padre, che aveva iniziato a lavorare come aiuto contabile, col tempo era diventato avvocato nel tribunale locale (6). Sundaram non aveva un titolo riconosciuto per esercitare il patrocinio legale, ma nonostante ciò aveva un’ottima pratica giuridica ed era molto rispettato nella sua comunità. Venkataraman visse a Tirucculi i suoi primi dodici anni, fino alla morte del padre quando poi la famiglia si trasferì a Madurai sotto la protezione dello zio Subbayyar Aiyar.
Si narra che nella famiglia di Ramana gravasse una sorta di “maledizione”, in quanto uno degli antenati familiari maltrattò un samnyasin (un rinunciante) che predisse, a ristoro dell’offesa, che ad ogni generazione, la famiglia avrebbe visto uno dei suoi componenti abbracciare la samnyasa.
Ramana era un ragazzo come gli altri, non particolarmente propenso allo studio, attratto dallo sport, dal pugilato e dal nuoto. L’unica stranezza che mostrava era un sonno particolarmente profondo, oltre ad una memoria eccezionale. I suoi compagni durante il giorno temevano di affrontarlo, mentre di notte, approfittando del suo sonno profondo, si vendicavano colpendolo sonoramente e lui non si accorgeva di nulla. Qualche volta lo trasportavano in un altro posto e lo abbandonavano là ancora dormiente. Un’altra sua particolare caratteristica era una grande fortuna che gli fruttò il nome di “Tangakai”, Colui che ha le mani d’oro.
L’esperienza della morte e il sorgere della consapevolezza del sé, verso i sedici anni, lo trasformarono profondamente e immediatamente.
«Tu mi hai nascosto tutta la conoscenza del conseguimento graduale, mentre vivevo nel mondo, e mi hai dato la pace …»(7).
Per breve tempo finse di adempiere ai suoi doveri, comportandosi secondo le istanze di chi lo circondava, ma approfittando di ogni minuto di tempo libero per immergersi nella profondità del suo Essere. La sua coscienza della percipienza faticava a restare desta, senza sciogliersi nel Quarto (8).
Non ci volle molto perché in lui maturasse il senso dell’inutilità di quello che faceva, dell’inadeguatezza della sua attuale condizione terrena. Una volta, per punizione, gli era stato dato il compito di ricopiare per tre volte una lezione di grammatica. La ricopiò per due volte, quando si accinse a farlo per la terza volta si rese conto della inutilità di quel che stava facendo e si immerse in se stesso. Il fratello maggiore, che lo stava osservando, disse: «A che serve tutto questo a uno così?». Queste parole furono per Ramana la molla che fece scattare la decisione di abbandonare la vita quotidiana con i doveri di figlio e studente. Venkataramam maturava così nel suo cuore il distacco totale. In India si parla degli stadi della vita umana: il primo è quello dello studente, il secondo è quello del capo famiglia, il terzo dell’anacoreta e l’ultimo è quello del samnyasin, il rinunciante, ossia colui che è distaccato da tutto e, pur vivendo nel mondo non è del mondo. Questi stadi di vita dovrebbero essere un percorso graduale, mentre Ramana passò direttamente dalla condizione di studente a quella di rinunciante, senza alcuna investitura formale, e a seguito di una improvvisa maturazione della sua coscienza.
«Sono stato veramente fortunato a non dedicarmi mai a quella (la filosofia). Se l’avessi fatto, probabilmente mi sarei perduto; ma le mie inerenti tendenze mi condussero direttamente a domandarmi: “chi sono io?”»(9).
Quando espresse la sua intenzione di rinunciare a tutto per dedicarsi all’ascesi non fu preso sul serio.
Durante la sua vita, Ramana scrisse alcuni inni di lode ad Arunachala, né si allontanò mai da essa. In uno dei suoi inni canta:
«Fin dalla mia infanzia si rivelò alla mia comprensione che Arunachala era qualcosa di grandissimo. Anche quando venni a sapere da un altro che era Tiruvannamalai, non ne compresi il significato».
Qui Ramana richiama un episodio immediatamente precedente alla sua esperienza del Sé. Avendo chiesto ad un parente in visita da dove venisse, alla risposta: “Da Arunachala”, il cuore di Ramana vibrò inspiegabilmente e la sua anima si accese di gioia.
Il 29 agosto del 1896, dopo l'esperienza dell'assorbimento nel Sé, Ramana disse al fratello che si sarebbe recato ad assistere ad una lezione, il fratello lo pregò di prendere i soldi necessari per pagare la retta della scuola. La zia gli consegnò i soldi per la retta, Ramana ne prese solo una parte, tre rupie, e si diresse verso la stazione ferroviaria. La famiglia era completamente all’oscuro delle sue decisioni. Così fuggì da casa senza dire nulla, lasciando solo un biglietto in cui diceva di essere stato attratto da un potentissimo magnete: il sacro monte Arunachala. Il biglietto tutt’ora è conservato al Ramanasramam:
«Io sono andato via da questo luogo per cercare mio Padre, come Egli comanda. È impresa degna. Pertanto, nessuno si addolori per ciò che questo (ente) ha fatto. È inutile spendere denaro per cercare questo. La retta non è stata ancora pagata: sono state lasciate due rupie »(10).
Ramana consultò un vecchio atlante ferroviario e chiese il biglietto per la stazione più vicina a Tiruvannamalai. Se si fosse informato avrebbe scoperto che il treno arrivava fino a Tiruvannamalai e che il biglietto costava proprio le tre rupie in suo possesso. Scese a Viluppuram pensando di fare l’ultimo tratto a piedi. Pranzò in un albergo e, al momento di pagare, l’oste gli chiese quanto denaro avesse con se. Ramana disse che aveva solo due anna, l’oste non volle essere pagato e gli diede indicazioni per arrivare a Tiruvannamalai. Ramana prese il treno per Mambalappattu un villaggio prossimo a Tiruvannamalai. Camminò per dieci miglia e si fermò nel tempio di Arayanunallur. Mahadevan riporta che qui ebbe la visione di una fulgida luce che avvolgeva l’intero luogo e che, svanita la visione, si immerse in meditazione. Al momento di chiudere il tempio i sacerdoti lo scossero per risvegliarlo e così li seguì.
Arrivati a un altro tempio, tre miglia più avanti, Ramana si immerse nuovamente in meditazione. Ancora una volta i sacerdoti lo scossero per mandarlo via e il tamburino del tempio, commosso, gli cedette la sua razione di cibo.
Il mattino seguente riprese il cammino e alla fine, dopo aver molto camminato a lungo, pensò di vendere i suoi orecchini d’oro per procurarsi il denaro per il resto del viaggio e per un po’ di cibo. Si fermò davanti a una casa di un certo Muthukrishna Bhagavatar. Lì ricevette del cibo dalla padrona di casa e chiese a Bhagavatar di far valutare gli orecchini. Quando gli venne detto che valevano venti rupie rispose che a lui, per completare il pellegrinaggio, non occorreva tanto denaro, sarebbero bastate solo quattro rupie. Bhagavatar accettò gli orecchini e diede a Ramana la somma richiesta con una ricevuta per riscattarli ma Ramana, appena lasciata la casa del Baghavatar, strappò il biglietto.
Il mattino seguente prese il treno e il primo settembre 1896 arrivò finalmente a Tiruvannamalai, dove raggiunse il grande tempio di Arunachalashvara.
Alcuni, come Mahadevan, narrano che entrò nel sancta sanctorum del tempio e lì adorò il Lingam (11): tutte le porte erano aperte, ma il tempio era completamente vuoto. David Godman racconta che Ramana abbracciò il lingam, che il tempio era vuoto perché le porte, che erano state chiuse si aprirono miracolosamente di fronte al giovane Ramana. Godman ricorda che il sacrario interno del tempio veniva sempre sigillato con una massiccia serratura in quanto l’accesso al lingam è interdetto a chi non è addetto alle funzioni religiose che si trasmettono per via ereditaria. Ramana però non autorizzò la pubblicazione di queste circostanze, sia perché non diede mai peso agli eventi soprannaturali che si verificavano accanto a lui, sia perché il suo abbraccio al lingam, agli occhi dei sacerdoti del tempio, sarebbe stato considerato un atto contaminante il sacro simbolo e sarebbe stata necessaria la sua riconsacrazione. L’abbraccio con il Lingam avrebbe avuto l’effetto di placare un forte senso di bruciore nel corpo di Ramana che aveva iniziato a farsi sentire fino al momento della sua illuminazione.(12)
Da allora, fino alla sua morte, Ramana non si allontanò mai da Tiruvannamalai. Anni dopo, ricordando ciò che gli era accaduto nei primi anni, affermò che all’inizio pensava che lo avesse colto una strana, seppur piacevole malattia e sperava di non essere ricoverato a causa di essa. Un altro pensiero era che poteva trattarsi di una sorta di possessione da parte di qualche spirito. Lo spirito che l’aveva chiamato a sé, esercitando una “attrazione misteriosa”, era la sacra montagna di Arunachala.
«Oh, grande prodigio! Sta come un monte insensibile. Per chiunque è difficile capire la sua azione. Fin dalla mia infanzia si rivelò alla mia comprensione che Arunachala era qualcosa di grandissimo. Anche quando venni a sapere da un altro che era Tiruvannamalai, non ne compresi il significato. Quando, acquietando la mia mente, mi chiamò a sé, e io mi avvicinai, scoprì che era l’inamovibile »(13).
TIRUVANNAMALAI
Paul Brunton in «India segreta» narra del suo incontro con il Maharshi e scrive:
«Con tre rupie in tasca e senza conoscere niente del mondo, cominciò il viaggio verso l’interno del sud. I sorprendenti incidenti che avvennero durante il viaggio provano certamente che era guidato e protetto da qualche misterioso potere. Quando infine giunse a destinazione era completamente povero e fra gente assolutamente estranea. Ma il sentimento della rinuncia totale ardeva intensamente dentro di lui. Allora fu tale il disprezzo del giovane per ogni proprietà terrena che gettò via i suoi abiti ed assunse la posizione meditativa completamente nudo dentro il recinto del tempio. Un sacerdote lo notò e si lamentò con lui, ma senza successo. Sopraggiunsero altri sacerdoti scandalizzati e solo dopo sforzi violenti riuscirono ad ottenere una concessione dal giovane: acconsentì ad indossare un semiperizoma, e da quel giorno è tutto ciò che indossa».
Ramana giunse a Tiruvannamalai, ai piedi del sacro monte di Arunachala, il 1° settembre del 1896 e da lì, per tutta la durata della sua parabola terrena, mai si allontanò.
Ramana trascorse i primi anni nell’ambito del grande tempio di Tiruvannamalai. Dapprima nella immensa sala in pietra con il tetto, pure in pietra, sorretto da molte colonne accanto alla torre orientale del tempio di Arunacaleshvara (Sala Dei Mille Pilastri).
Ramana stava seduto immerso in meditazione senza dar segni di vita e questo attirò l’attenzione di alcuni giovinastri che presero a girargli attorno lanciandogli sassi. Dopo qualche settimana Ramana si trasferì in un sacrario abbandonato sotto la sala. Fu in questo sacrario sotterraneo che raggiunse le estreme vette dell’ascesi. Insensibile agli stimoli esterni, non distinguendo nella oscurità del sacrario il giorno dalla notte, il suo corpo si riempì di punture di insetti e formiche, il sangue e il pus uscendo dal suo dorso e dalle cosce macchiavano il pavimento e il muro a cui si poggiava. I giovinastri scoperto dove si era trasferito, continuarono a molestarlo lanciando pietre.
«Non conoscevo nulla, non avevo appreso nulla prima di venire qua. Un misterioso potere prese possesso di me e realizzò una completa trasformazione. Non conoscevo nulla e non avevo pianificato alcunché. Quando lasciai la mia casa a diciassette anni ero come una briciola spazzata via da un tremendo alluvione. Non ero consapevole del mio corpo o del mondo, se era giorno o notte. Mi era difficile persino aprire gli occhi. Le palpebre sembravano incollate. Il mio corpo divenne scheletrico. I visitatori avevano pietà per il mio stato, ma non erano consapevoli quanto fossi pieno di beatitudine. Fu solo dopo anni che incontrai il termine Brahman: mi capitò di leggerlo nei libri sul Vedanta che mi erano stati portati. Sorridendo dissi a me stesso: “Ah è conosciuto come Brahman”»(14).
L’assorbimento continuo di Ramana nel Sé, era stato notato da un sadhu di nome Sheshadri che iniziò a prendersi cura di lui cacciando i molestatori che iniziarono così a dileggiare pure lui. Un giorno Venkayachala Mudali vide i giovinastri lanciare dei sassi all’interno del sacrario, così li prese a bastonate scacciandoli dal tempio. Sheshadri uscì dal sotterraneo, assicurò Mudali di non essere ferito e lo condusse a vedere Ramana che era immerso nella contemplazione del Sé. Successivamente, aiutato da altri, Sheshadri spostò il corpo di Ramana in un sacrario dedicato a Subrahmanya.
Durante i due mesi che restò nel sacrario sotterraneo, Ramana veniva nutrito a forza da un sadhu, Muni Svami, che viveva lì. Ogni giorno il sadhu, dava da bere a Ramana una miscela di acqua, latte, frutta schiacciata, curcuma e altro. Questo miscuglio era il risultato del lavaggio cerimoniale della statua di Parvati. In seguito Ramana si spostò nel giardino del tempio sistemandosi sotto un alberoe rimanendo sempre immerso nella beatitudine del samadhi.
Man mano che passava il tempo, sempre più persone venute in pellegrinaggio a Tiruvannamalai, notavano quel giovane asceta immobile sempre immerso nel silenzio. A poco a poco altri sadhu iniziarono ad occuparsi di lui, sperando di ricevere un' istruzione superiore mentre si occcupavano del suo corpo piagato dagli insetti e dei suoi capelli arruffati.
« [...]mi avreste dovuto vedere a Gurumurtham: ero solamente pelle e ossa, con tutte le ossa che spergevano di fuori: l’osso del collo, le costole, e le anche. Non si vedeva piu lo stomaco: stava per congiungersi con la schiena, tanto si era ritirato [...] le mie unghie erano cresciute di un pollice e avevo un groviglio di capelli (jata) fluente e lungo (15) e solevo dire alle persone con cui parlavo che ero molto vecchio in anni, sebbene così giovane all’apparenza e che ero così da secoli!» (Muliadar).
La sua fama ormai si era così diffusa che i devoti arrivavano in massa e fu necessario qualcuno che li disciplinasse. Fu allora che al giovane saggio si unì Palaniswami, un discepolo che rimase al suo servizio per oltre vent’anni. Mentre Ramana era al Gurumurtam i suoi devoti volevano rendergli una puja, ossia venerarlo come un simbolo del Divino (16). In quei tempi Ramana veniva chiamato Brahmana Svami perché lo stato di continuo samadhi e silenzio non aveva permesso ad alcuno di sapere chi fosse. Quando comprese le intenzioni dei devoti, espresse il suo disappunto con un pezzo di carbone, scrivendo sul muro accanto, in tamil: «Questo è l’unico servizio richiesto per questo». I devoti capirono che il giovane asceta accettava come servizio solo il cibo che consumava. Fu allora che i devoti scoprirono che il saggio sapeva scrivere, così lo interrogarono sul suo nome e sulle sue origini. Ramana rimase in silenzio fino a quando un devoto minacciò di digiunare e di non andare a lavorare finché non lo avesse svelato. Ramana infine cedette e preso un pezzo di carta, scrisse in inglese «Venkataraman Tiruchuzhi». Così i devoti scoprirono il suo nome, da dove veniva e che conosceva l’inglese.
Palaniswami e Ramana si trasferirono poi in un bosco di manghi di un devoto per evitare le troppe folle che disturbavano il giovane asceta. Fu anche messo un custode con le precise istruzioni di impedire a chiunque l’accesso senza il consenso di Ramana.
Fu in questo luogo che Ramana, grazie a Palaniswami, lesse le scritture del Vedanta. Palaniswami, difatti, si recava alla biblioteca per prendere in prestito libri sul Vedanta da farsi spiegare da Ramana. Fu così che Ramana scoprì che i libri portati da Palaniswami descrivevano quanto lui aveva esperito.
Dal bosco di alberi di mango si trasferì poi presso un piccolo tempio. Avendo già riacquisito la percipienza che gli permetteva di essere cosciente anche del mondo circostante iniziò a fare la questua per il cibo e cercò di congedare Palaniswami: «Tu vai per la tua strada a mendicare il tuo cibo e io andrò per un’altra. Non viviamo insieme». Ramana si metteva di fronte a una casa e batteva le mani, poi mangiava per strada quello che gli veniva offerto. Palaniswami obbedì alla richiesta di fare la questua separatamente, ma alla sera ritornava dal Maestro.
« A proposito di questo, G. V. S. chiese a Bhagavan di raccontare dei suoi primi giorni e se fosse mai andato in giro per la questua. Allora Bhagavan riferì che era stato il padre di T. P. Ramachandra Aiyar a condurlo, per primo, con la forza a casa sua per alimentarlo e che la prima volta che elemosinò un po’ di cibo, fosse stato dalla moglie di Chinna Gurukal. Seguì col dire che dopo quella volta chiese liberamente l’elemosina in pressoché tutte le strade di Tiruvannamalai. Poi disse: «Non puoi nemmeno immaginare la maestà e la dignità che sentivo mentre chiedevo l’elemosina. Il primo giorno, quando bussai dalla moglie di Gurukal, mi sentivo un po’ a disagio, era ovviamente il risultato di abitudini e di educazione, ma dopo quella volta non mi sentii più per nulla umiliato. Mi sentivo come un re e più di un re. Qualche volta ho ricevuto in qualche casa della vecchia farina d’avena e l’ho mangiata senza sale o qualsiasi altro condimento, per strada, all’aperto, di fronte a grandi pandit e ad altri uomini importanti che venivano e si prostravano di fronte a me, al mio Asramam. Dopo aver mangiato le offerte mi asciugavo le mani sulla testa e continuavo a camminare, veramente felice e in un stato mentale in cui perfino un imperatore era come paglia o strame ai miei occhi. Non puoi immaginarlo. È proprio perché esiste questo sentiero (marga) che noi possiamo trovare nella storia episodi di re che danno via i loro troni, intraprendendo questo percorso» (17).
La rivelazione del nome e del luogo di provenienza permise indirettamente alla famiglia di rintracciarlo. Durante un funerale, due anni dopo la sua sparizione, lo zio seppe di un asceta di nome Venkataraman di Tirucculi. Lo zio seguì quella voce scoprendo che l’asceta che viveva nel bosco di manghi era proprio il nipote. Il guardiano del boschetto non gli permise di avvicinarlo, ma acconsentì di recapitargli un biglietto. Lo zio non aveva né inchiostro né penna, pertanto scrisse il suo messaggio usando un ramoscello come penna e il succo di un pruno selvatico come inchiostro. Quando fu poi ricevuto, tentò di convincerlo a tornare a casa rassicurandolo che non lo avrebbero più ostacolato nella sua vocazione ascetica,ma il giovane rifiutò. Così lo zio, comprendendo che si trattava di un diniego insormontabile, scrisse alla madre di Ramana di averlo trovato e fece ritorno a Manamadurai.
«Quando mio zio Nelliappier Aiyar venne a trovarmi, ero nel Mango Tope vicino a Gurumoortham. La via più breve, per arrivarci dalla stazione, passava attraverso un luogo dove viveva uno Swami. Mio zio era preoccupato per me in quanto, avendo da poco lasciato la scuola, difficilmente potevo conoscere la religione o le verità spirituali. Così chiese allo Swami se io realmente conoscessi qualcosa della via sulla quale mi ero avviato. Lo Swami disse a mio zio che non sapevo nulla, ma che sedevo ad occhi chiusi, in modo fermo ed ostinato, facendo una specie di hatha yoga.
Mio zio credeva che non fosse possibile concludere qualcosa di valido sul percorso spirituale senza leggere i Vedanta Sastra, così rafforzò la sua misera opinione nei miei confronti, provando soltanto pietà.
Quando già vivevo alla caverna di Virupaksha, un giorno stavo spiegando la quarta stanza del Dakshinamurti Stotra ad un giovane che era solito venire spesso da me e mi aveva chiesto di spiegarglielo. In quei giorni stavo generalmente in silenzio e la gente pensava che stessi facendo mauna. Mio zio apparve all’improvviso e mi colse durante la spiegazione. Rimasi esitante per un momento, non sapendo se continuare a parlare o osservare il mauna. Ma vedendo che mio zio aveva già compreso, non me ne curai e continuai il discorso. Questo evento convinse mio zio della mia conoscenza di una gran quantità di argomenti che lui pensava non potessi sapere. Anche lo Swami che tempo prima aveva detto a mio zio che non sapevo nulla, aveva nel frattempo cambiato opinione. Ecco come accadde: un giorno, ritornando dal mio pradakshina (giro) attorno alla collina, ero entrato nel Math di Easanya, dove trovai lo Swami. Questi mi mostrò il Vivekachudamani, interrogandomi su alcune strofe. Quando gliele spiegai, citando altri brani dello stesso libro e di altri, la sua considerazione nei miei riguardi cambiò completamente» (18).
Approfittando delle ferie natalizie del figlio maggiore, Nagaswami, la madre di Ramana, Alagammal, si recò a Tiruvannamalai per convincere il figlio a ritornare a casa. Ramana non diede cenno di riconoscere la madre. Ella pianse, si disperò e importunò i devoti affinché la aiutassero a convincere Ramana. Alla fine un devoto intercesse per lei e chiese a Ramana: «Perché non le parli?». Ramana scrisse un biglietto che diceva:«In armonia con il prarabdhakarma(19), l’Onnipotente ordina sempre tutte le cose. Ciò che non è destinato ad accadere non accadrà, indipendentemente da tutti gli sforzi fatti affinché accada e ciò che è destinato ad accadere non cesserà di accadere indipendentemente dagli ostacoli posti sulla sua strada. Poiché questo è certo, è bene conservare il silenzio». Alagammal, delusa, capì che il figlio sarebbe rimasto sordo all’emotività materna e fece ritorno a casa.
Dopo due anni e mezzo dal suo arrivo Ramana ritornò a uno stile di vita “normale”, nel senso che non rimaneva immerso in meditazione per la maggior parte della giornata.
Ramana lasciò anche Pavalakkunru e si stabilì in una grotta sulle pendici del monte Aruna.
A due anni dal suo arrivo, Sri Ramana, ormai presente al mondo per più ore al giorno, si trasferì così in una caverna sulle pendici di Arunachala.
LA SACRA MONTAGNA
«Chi è il veggente? Quando cercai dentro, vidi la scomparsa del veggente e ciò che vi sopravviveva. Non sorse il pensiero ‘io vidi’; come dunque poteva sorgere il pensiero ‘io non vidi’? Chi ha il potere di esprimere ciò a parole, quando pure Tu, (apparendo come Dakshinamurti), nei tempi antichi hai potuto farlo solo con il silenzio? (20) Ed è solo per esprimere il Tuo Stato con il silenzio che Ti ergi come una Montagna splendente dal cielo alla terra» (21).
Di Arunachala i Purana shaiva narrano di una disputa sorta fra Brahma e Vishnu su chi fosse il più grande. Si racconta che, poiché tale disputa si era presto trasformata in uno scontro che stava devastando l’universo, Shiva si manifestò fra loro sotto le sembianze di un’enorme colonna di fuoco. I due contendenti, sorpresi, decisero che chi avesse trovato la fine della colonna sarebbe stato il più grande.
Vishnu assunse la forma del verro (cinghiale maschio) Varaha e iniziò a scavare giù, attraverso i mondi inferiori, mentre Brahma prese la forma di un cigno e si involò verso l’alto. Vishnu arrivò sino al quarto mondo inferiore, ma la fine della colonna non era nemmeno lì, così si arrese e tornò indietro
Nemmeno Brahma riuscì a raggiungere la sommità, ma raccolto un fiore caduto dal paradiso affermò di averlo colto sulla sommità.
In questo mito Shiva, il Distruttore, è il Sé e distrugge l’illusione di una esistenza individuata; Vishnu, il Preservatore, è il senso dell'io e preserva l'esistenza apparentemente separata, unendo insieme tutti i suoi momenti in un insieme apparente. Scava dentro se stesso, cercando invano di Essere. Brahma, il Creatore, è la mente quando assume la funzione creativa e vola alta, fra idee e teorie, e se anche riceve un'intuizione dal paradiso erroneamente si crede illuminata.
Quando Shiva si mostrò con la sua forma benedisse Vishnu per la sua verità e devozione e condannò Brahma, per l’offesa, a non avere dedicato alcun tempio. Effettivamente i templi indiani sono prevalentemente dedicati a Shiva e Vishnu. Sono i Purana stessi a sostenere che allora Brahma aveva un’ulteriore quinta testa sporgente sopra le quattro con cui viene raffigurato, che venne recisa dallo stesso Shiva.
"La quinta testa di Brahma è la quintessenza oltre i quattro elementi, il centro oltre le direzioni dello spazio, la pura conoscenza che trascende la conoscenza relativa della mente e dei sensi. È l'equivalente del terzo occhio di Shiva, la conoscenza unitaria che sottende la dualità. La sua recisione è la caduta dell'uomo secondo la tradizione cristiana: l’uomo, privato della conoscenza diretta del paradiso precipita nel mondo degli opposti, il mondo del bene, del male e del conflitto tra loro.
Si narra che Vishnu intervenne e pregò il Signore Shiva, ricordandogli che Brahma è il Dio dei quattro Veda (le sue quattro facce) e che questi non sono costituiti da meri concetti ma sono il suono originario, di base, da cui l'universo è creato ed è tenuto in essere. Pertanto se il Dio dei Veda fosse stato distrutto, anche l'universo si sarebbe sbriciolato cadendo in rovina.
Sambhu il Benefico: (epiteto di Shiva) rispose che Brahma restava ancora il Dio dei Veda e che in qualunque luogo, i Veda fossero stati salmodiati, quello sarebbe stato il suo tempio.
Allora Vishnu e Brahma, pregarono Shiva di ritrarre il Suo splendore lasciando che la colonna di fuoco assumesse la forma di una inerte collina per l’eterna e continua benedizione del mondo. Fu così che il Signore Shiva, ascoltando con misericordia le loro preghiere, ritrasse il suo splendore nella collina di Arunachala per la benedizione di coloro che la visitano. Ogni anno, durante la festa di Kartikai, un fuoco sacro alimentato col ghee (burro chiarificato), donato dai devoti, viene acceso sulla sommità di Arunachala come simbolo della sua reale natura di puro fuoco.” (22)
Domanda. Ho letto i Cinque Inni e comprendo che sono indirizzati ad Arunachala. Ma voi siete un non-dualista, perciò, come potete rivolgervi a Dio come a un Essere separato?
Risposta. Il devoto, Dio e gli inni sono tutti il Sé.
D.: Ma voi vi rivolgete a Dio. Voi definite questo Monte Arunachala come Dio.
R.: Voi potete identificare il Sé con il corpo; perché il devoto non dovrebbe identificare il Sé con Arunachala?
D.: Se Arunachala è il Sé, perché sceglierlo in particolare fra tanti altri monti? Dio è ovunque. Perché Lo specificate come Arunachala?
R.: Cosa vi ha attirato da Allahabad in questo luogo? Che cosa ha attirato qui tutta questa gente?
D.: Sri Bhagavan.
R.:Che cosa mi ha attirato qui? Arunachala. Il Potere non può essere negato. Arunachala è dentro e non fuori. Il Sé è Arunachala.
Ramana nutriva una vera e propria venerazione per la montagna sacra di Arunachala e sosteneva, senza alcuna evidenza fisica, che Arunachala fosse un axis mundi e che ai suoi antipodi dovesse esserci una montagna di pari sacralità. Neanche l’evidenza cartografica che mostrava come gli antipodi di Aruna cadessero al largo delle coste del Perù, lo fecero recedere da questa convinzione. Diceva che avrebbe potuto esserci una isola non segnata sulle carte o una montagna sottomarina.(23)(24)
VIRUPAKSHA
Nel 1900 Ramana si trasferì sui pendii di Arunachala. Per la maggior parte del tempo risiedeva nella grotta di Virupaksha, così chiamata perchè ospita la tomba del santo Virupaksha Deva vissuto nel tredicesimo secolo. La grotta di Virupaksha non è adatta a viverci d’estate a causa del gran caldo, così Ramana vi soggiornava per otto mesi e durante i mesi più caldi si trasferiva in grotte più fresche come la Satguru Svami, in santuari come Guru Namashivaya oppure, soprattutto, in un posto chiamato la Grotta dell’albero di mango.
Soggiornò anche a Pachaiamman Koil per sei mesi nel 1905 quando la peste imperversò nella regione, rendendo Tiruvvanamalai deserta al punto che le bestie feroci, tigri e leopardi, ricomparvero nei luoghi un tempo affollati di gente. Il fedele Palaniswami lo seguì e continuò a prendersi cura di lui. Ramana lasciò definitivamente Virupaksha nel 1916. A questo periodo risale la foto più antica che abbiamo di Lui (25).
Questa foto ritrae un Ramana ventenne, un giovanotto minuto e dai capelli corti. Erano passati solo quattro, cinque anni dal suo arrivo a Tiruvannamalai. La foto fu scattata da un fotografo, discepolo di Kumbakonam Mauna Svami che aveva sentito parlare di lui arrivando a Tiruvannamalai per fare delle foto ad alcuni carcerati per conto del governo. Approfittando dell’occasione, fece una visita al giovanissimo asceta e lo fotografò.
Proprio all’inizio della permanenza nella grotta di Virupaksha risalgono gli unici due componimenti in prosa del Maharshi: «La ricerca del sé» e «Chi sono?». Nessuno di questi però è stato scritto direttamente da Ramana. «La ricerca del sé» si deve a Gambhiram Sheshayya un sovrintendente municipale che era devoto di Rama (incarnazione di Vishnu). Sheshayya poneva delle domande e Ramana rispondeva scrivendo su dei pezzi di carta portati dal sovrintendente.
«Lo scopo di tutte le scritture è l’indagine sul sé. In esse si dichiara che la Liberazione sta nell’annientamento del senso dell’Ego. Come si può dunque rimanere indifferenti a questo insegnamento? Può il corpo, che è insenziente come un pezzo di legno, splendere e funzionare come “io”? No. Perciò si metta da parte questo corpo insenziente come se fosse veramente un cadavere. Non si borbotti “io”, ma si cerchi dentro con slancio che cos’è che ora splende dentro il cuore come “io”. Sotto l’incessante flusso dei più svariati pensieri sorge nel Cuore la continua ininterrotta consapevolezza, silenziosa e spontanea, come “io dell’io”. Se si afferra quella consapevolezza rimanendo calmi, essa annienterà completamente il senso dell’“io” nel corpo che scomparirà come fuoco di canfora bruciata. Saggi e scritture proclamano che questa è la liberazione»(26).
«La ricerca del sé», pur nella sua brevità e nonostante le particolari circostanze in cui fu concepito, espone un sentiero diretto alla liberazione che collima con l’asparsa yoga di Shankara e Gaudapada, i codificatori del Vedanta Advaita. In essa Ramana descrive, con piena maturità spirituale e a dispetto della sua età biologica, la costituzione dell’uomo secondo la dottrina Vedanta, utilizzando un’originale analogia in cui il Sé viene visto come il Fuoco sacro che arde imperituro nel tempio psicofisico e presentando una sintesi di cosmologia e ontologia. Descrive infine anche i mezzi indiretti di realizzazione quali l’astanga yoga.
«Il Sé è autorifulgente. Non si deve dargli un’immagine mentale. Il pensiero che lo immagina è esso stesso schiavitù, perché il sé è il fulgore che trascende l’oscurità e la luce; non si dovrebbe pensare al Sé con la mente. Tale immagine finirebbe di porci in schiavitù, mentre il Sé splende spontaneamente come l’Assoluto. Poiché l’ego nella forma di pensiero dell’”io” è la radice dell’albero dell’illusione, la sua distruzione abbatte l’illusione, come un albero è abbattuto dal taglio delle radici. Solo questo facile metodo di annientamento dell’ego è degno di essere chiamato Bakti (devozione), Jnana (Conoscenza), Yoga (unione), o Dhyana (meditazione)» (27).
Poco tempo dopo, fra il 1901 e il 1902, un altro devoto Sivaprakasam Pillai pose altre domande incentrate sulla realizzazione della propria natura essenziale: “Chi sono io?”, “Come posso realizzare chi in realtà sono?”. Ramana era ancora nella fase in cui parlava con estrema parsimonia, al punto che i discepoli pensavano che avesse fatto voto di silenzio (muni). Anni dopo raccontò che il suo silenzio non era stato una scelta volontaria, ma una sua vocazione interiore: non parlava perché non sentiva la necessità di farlo. Ramana rispondeva al solito con il mezzo che lui riteneva più diretto: il silenzio. Viene detto che il Silenzio, sul piano del manifesto, è il simbolo più alto del Sé, ma quando ciò non bastava rispondeva a Sivaprakasam Pillai scrivendo con il dito sul terreno. Quando c’era bisogno di rispondere ad un’altra domanda, cancellava con il palmo della mano quanto aveva scritto e scriveva la risposta. Pillai, tornato a casa, segnava quello che si ricordava delle domande e delle risposte. Vent’anni dopo pubblicò una piccola biografia di Ramana ponendo come appendice le domande e le risposte [che allora annotò]. I devoti di Ramana apprezzarono moltissimo questa piccola appendice che venne poi pubblicata dal Ramanasramam e via via, con le successive edizioni, arrivò a comprendere una trentina di domande e risposte. Nel 1920 lo stesso Bhagavan Ramana riscrisse il tutto in forma di piccolo trattato, elaborando alcune risposte ed eliminandone altre. Il risultato finale di questo singolare dialogo realizzativo che si svolse venti anni prima, nei pressi della grotta di Virupaksha, e fu scritto con il dito sul suolo del sacro Monte di Aruna, è il “Chi sono io”.
«Ogni essere vivente desidera essere sempre felice, incontaminato dal dolore; tutti hanno il più grande amore per se stessi. Il che è solamente dovuto al fatto che la felicità è la loro vera natura. Quindi, per realizzare quella inerente e incontaminata felicità, che in realtà sperimentiamo ogni giorno quando la mente è sottomessa nel sonno profondo, è essenziale conoscere se stessi. Per ottenere tale conoscenza, il mezzo migliore nella ricerca del Sé è la domanda “Chi sono?”».
“CHI SONO?”, Io non sono questo corpo fisico, né sono i cinque organi della percezione sensoriale; io non sono i cinque organi dell’attività esterna organi d’azione, né le cinque forze vitali i cinque “soffi” o prana, e neppure sono la mente pensante. Non sono neppure quell’inconscio stato di nescienza che conserva semplicemente le sottili vasana (potenzialità latenti della mente), pur essendo libero dall’attività funzionale degli organi sensoriali e della mente, rimanendo inconsapevole dell’esistenza degli oggetti della percezione sensoriale.
Perciò, respingendo in blocco tutti i succitati complementi fisici e le loro funzioni, dicendo: “ Io non sono questo; no, non sono né questo né quello”, ciò che allora rimane separato e da solo, quella pura Consapevolezza è ciò che io sono. Questa consapevolezza è per sua stessa natura Sat-Chit-Ananda (Esistenza-Coscienza-Beatitudine) (28).
Ramana quindi insegnava il sentiero della discriminazione fra ciò che è Reale e ciò che è perituro e il suo insegnamento è perfettamente collimante con il sentiero del vedantico “neti, neti” (non è questo, non è neanche quest’altro). Ramana dà anche una via molto pratica. Dice che la mente non è altro che l’insieme dei pensieri e che la radice di tutti questi pensieri, il primo pensiero è quello dell’”io”. Ecco che, dissolto questo primo pensiero, resta solo il Sé che brilla incontaminato.
«Anche quando pensieri estranei spuntano durante tale investigazione, non cercate di completare il pensiero che sorge, ma invece investigatevi a fondo dentro: “A chi si è presentato questo pensiero?. Non importa quanti pensieri si presenteranno, se investigherete con vigile attenzione su ogni singolo pensiero che sorge e domandandovi a chi si sia presentato, scoprirete che si è presentato a “me“. Se poi vi domandate : “Chi sono?“, la mente si introverte e anche il pensiero sorgente si placa. In questa maniera, se perseverate sempre più nella pratica della ricerca del Sé, la mente acquisterà forza crescente e facoltà di permanere nella propria Sorgente (29).
La pratica del «Chi sono?» non rinnega però gli usuali mezzi dello yoga. La semplicità della ricerca del Sé proposta da Ramana, inserendosi nella Tradizione del Vedanta Advaita, non è adatta ai più e quindi non sono sconsigliati altri mezzi. Ramana traccia però la differenza fra il sentiero diretto del «Chi sono?» e gli altri mezzi dicendo:
« Per placare la mente non c’è un altro mezzo più efficace e adeguato della ricerca del Sé. Anche se la mente sembra placarsi con altri mezzi, sarà così soltanto apparentemente; essa sorgerà di nuovo» (30).
Nel 1895 Ramana dimorò per sei mesi a Pachaiamman Koil, ed allo scoppiare della epidemia di peste ritornò sui fianchi della montagna.
Ramana era veramente parco quando si trattava delle esigenze del suo corpo; raccontò in una occasione quanto segue:
«Quando ero a Pachaiamman Koil avevo un piccolo asciugamano stracciato e lacero, quasi uno straccio, con i fili che fuoriuscivano dappertutto. […] Non lo svolgevo mai in pubblico: lo tenevo arrotolato come una palla e lo usavo per asciugarmi il corpo, le mani o la bocca, a seconda dei casi. Lo lavavo e l’asciugavo in un luogo tra due rocce, luogo che non fu mai visitato da alcuno di quelli che erano con me. Anche il mio perizoma era ridotto ad uno straccio. Quando la parte esterna era logora, lo rivoltavo dentro e fuori. Quando andavo nella foresta lo rammendavo di nascosto con un suo stesso filo, e con una spina del pero spinoso per ago. Così nessuno seppe mai o sospettò lo stato sciagurato del mio asciugamano e del mio perizoma. Un giorno però uno di quelli che erano con me, andò di giorno al luogo dove li facevo asciugare e per caso scoprì lo stato dei miei vestiti. Tutti allora si scusarono per aver permesso tale stato di cose, dicendo di aver commesso un sacrilegio non scusabile (l’apachara) e così via. Poichè avevano in in quantità interi pezzi di stoffa e molti asciugamani, me li offrirono perché li usassi. Non sapevano come era malridotto e lacero il mio asciugamano e il mio perizoma, altrimenti me li avrebbero sostituiti da tempo con altri dei loro (31).
Nella grotta di Virupaksha il 18 novembre del 1907 ci fu l’incontro fra Venkataraman e Ganapati Shastri. All’età di sei anni Ganapati si dimostrò un bambino prodigio e successivamente fu dichiarato, da un’assemblea di Pandit, Kavyakantha, «Colui che ha la poesia in bocca». Ganapati salì dallo Svami in una giornata caldissima dopo mezzogiorno e lo trovò seduto solo sotto la veranda della grotta. Si prostrò faccia per terra ai suoi piedi tenendoli stretti tra le mani e con voce tremante gli disse:
«Ho letto tutto ciò che dev’essere letto; ho compreso pienamente persino il Vedanta-Shastra; ho praticato japa con grande soddisfazione; tuttavia finora non ho capito che cosa sia il tapas. Perciò cerco rifugio ai tuoi piedi. Ti prego illuminami sulla natura del tapas (32).
Per un po’ lo Svami rimase a guardare, rimanendo in silenzio, poi rispose:
« Se si guarda da dove la nozione dell’io sorge, la mente sarà assorbita in Quello. Questo è tapas. Se un mantra è ripetuto e l’attenzione è diretta alla sorgente da cui il suono mantra sorge, la mente sarà assorbita in Quello. Questo è tapas».
Queste risposte riempirono di gioia Ganapati che rimase qualche ora in sua compagnia. Da Palinisvami apprese che il nome del Saggio, era stato Venkataraman Aiyar. Ganapati compose immediatamente cinque stanze in lode allo Svami nelle quali, per ragioni metriche, contrasse Venkataraman in Ramana che da allora divenne l’usuale modo di rivolgersi a Lui. Sempre a Ganapati Shastri si deve l’attribuzione a Ramana del titolo di Maharshi.
Nel 1908 Ramana, da gennaio a marzo, si spostò a Pachaiamman Koli insieme con Ganapati Muni. Nei pressi del tempio di Pachaiamman Koil c’erano molti alberi di tamarindo di proprietà del municipio. Ogni anno questi alberi venivano affittati a un privato che si curava della raccolta. Nel 1908 i tamarindi furono affittati ad un contrattista mussulmano. Per proteggere i frutti dei tamarindi dalle scimmie costui usava scacciarle tirando loro pietre con una catapulta, ma facendo attenzione a non ferirle. Il caso volle che una volta una pietra colpisse sulla testa una delle scimmie in modo così violento che essa morì. Moltissime scimmie circondarono il corpo della morta iniziando a guaire e a lamentarsi per la sua morte. Ad un certo punto presero il corpo della loro compagna e lo portarono a Ramana dentro il tempio di Pachaiamman.
Ramana aveva un ottimo rapporto di amicizia con le scimmie che lo consideravano oltre che amico anche un arbitro per risolvere le loro controversie. Riusciva a comunicare con estrema facilità con loro e frequentemente egli sedava le loro dispute ed era richiesto come mediatore per risolvere i problemi di territorialità fra le diverse tribù in guerra e i loro membri litigiosi.
In quel momento di collera e dolore per loro fu naturale andare da Ramana.
Le scimmie, appena gli furono vicine, scoppiarono in grida di dolore e piansero. Ramana pianse insieme con loro e dopo un po’ le scimmie si calmarono. Allora Ramana disse ai parenti della scimmia uccisa «La morte è inevitabile per chi è nato. Anche colui per le cui mani questa scimmia è morta, incontrerà la morte un giorno. Non c’è bisogno di addolorarsi».
Le scimmie pacificate da Ramana se ne andarono portandosi dietro il corpo della morta.
Due o tre giorni dopo il contrattista mussulmano fu costretto a letto da una malattia molto grave. La storia dell’insegnamento sulla morte che Ramana aveva impartito alle scimmie, addolorate per la morte della loro compagna, era intanto passato di bocca in bocca fino all’orecchio del contrattista che inavvertitamente l’aveva uccisa. I membri della famiglia si convinsero che l’improvvisa malattia del loro familiare fosse dovuta a una maledizione del Santo a cui le scimmie si erano rivolte per avere conforto. Si recarono pertanto da Ramana per implorare il suo perdono e la rimozione della maledizione. Gli dissero «È cosa certa che lo ha colpito una vostra maledizione, per pietà salvatelo dalla morte. Dateci della vibhuti (cenere sacra). Se cospargiamo il suo corpo con essa, egli certamente guarirà». Ramana rispose «Vi sbagliate. Mai maledico o benedico qualcuno. Ho mandato via le scimmie che erano venute qua semplicemente parlando loro della verità che chi nasce dovrà inevitabilmente morire. Inoltre non do mai a nessuno della vibhuti. Per piacere andate a casa e accudite il paziente che avete lasciato solo». I mussulmani non si lasciarono convincere così facilmente e dissero che non se ne sarebbero andati se non avessero ricevuto la vibhuti, così Ramana, per levarseli di torno, alla fine gli diede della cenere di legna prendendola dal fuoco con cui fuori dal tempio, a volte, preparava qualche cibo. I familiari la presero ringraziandolo di cuore e tornati a casa la usarono per curare il contrattista che guarì dalla sua grave malattia in pochi giorni.
Verso il 1912 Ramana ebbe una nuova esperienza della morte e della persistenza del Sé. Insieme con alcuni suoi devoti fra cui Vasudeva Shastri, si era recato a Pachaiyamman Koil. Al ritorno passando accanto a quella che era chiamata la roccia della tartaruga, lo colse un’improvvisa debolezza e una cortina bianca gli offuscò la vista. Sedette per terra e, fra la disperazione e le grida dei suoi compagni, il suo respiro si arrestò e il corpo cambiò di colore.
«La mia consueta corrente della coscienza continuò anche in quello stato. Non avevo per niente paura, e non soffrivo per le condizioni del corpo. M’ero seduto accanto alla roccia nella solita posizione, avevo chiuso gli occhi e non stavo appoggiato alla pietra. Il corpo, pur rimasto senza circolazione e respiro, manteneva ancora quella posizione. Tale stato continuò per dieci o quindici minuti. Poi una scossa passò all’improvviso in tutto il corpo e la circolazione e il respiro ripresero con enorme forza, mentre il sudore sgorgava da ogni poro. Il colore della vita riapparve sulla pelle. Allora riaprii gli occhi e dissi “andiamo”. Raggiungemmo la grotta di Virupaksha senza altri incidenti. Fu l’unica crisi in cui si arrestarono tanto la circolazione quanto il respiro» (33).
Dopo averlo ritrovato, la madre di Ramana, andava ogni tanto a visitarlo. Durante una di queste visite, nel 1914, si ammalò. Ramana non solo si prese cura di lei con estrema sollecitudine, ma addirittura compose un inno ad Arunachala. Pur sembrando una preghiera di guarigione, in realtà, era anche una preghiera affinché fosse ricondotta all’Unità con il Sé.
«O Signore, Montagna del mio rifugio, che guarisci i mali delle nascite ricorrenti! È in Tuo potere guarire la febbre di mia madre.
O Dio che uccidi la morte! Mostra i Tuoi piedi nel Loto del Cuore di colei che mi diede la luce perché trovassi il mio rifugio ai Tuoi Piedi di Loto, e proteggila dalla morte. Che cosa è la morte se la scruti in faccia?
Arunachala fuoco ardente della Conoscenza! Circonfondi mia madre della Tua luce e falla una cosa sola con Te. Che bisogno c’è della cremazione?
Arunachala che scacci l’illusione! Perché indugi a scacciare il delirio di mia madre? C’è forse qualcuno all’infuori di Te che può vegliare come una madre su chi ha cercato rifugio in te e liberare dalla tirannia del karma? (34)
Morto lo zio presso di cui la madre di Ramana viveva, questa si trasferì a Tiruvannamalai. All’inizio, insieme con un’altra devota, Echammal, si recava la mattina a Virupaksha e la sera ritornava in città. Nel 1916 la madre di Ramana s’insediò a Virupaksha. La cosa al principio non fu gradita dagli altri membri della piccola comunità che lì viveva. Virupaksha era un cenobio di asceti maschi che vivevano nel celibato e non volevano la presenza di una donna che vivesse in mezzo a loro. Ramana alle loro rimostranze disse con semplicità: «Se voi volete che vada via, io me ne andrò con lei», al che ogni voce contraria cessò (35).
La madre portò anche un’altra novità nella vita di quegli asceti: insistette affinché si creasse una cucina.
SKANDASHRAM
I residenti erano diventati troppo numerosi per la grotta di Virupaksha così dopo poco tempo Ramana e la sua “famiglia” si trasferirono a Skandashram.
Skandasramam fu chiamato così poiché l’Asramam era stato progettato e costruito da un vecchio devoto, Kandaswami, con grandi sacrifici e inauditi sforzi fisici.
Per scegliere il sito adatto il vecchio discepolo aveva ispezionato vari luoghi sulla collina e nella foresta ed alla fine aveva suggerito il sito dove oggi sorge lo Skandasramam che Bhagavan approvò. Kandaswami iniziò a disboscare la foresta di pruni selvatici che si trovava sul pendio della montagna ed il risultato delle sue fatiche, senza alcun aiuto da parte di altri, fu l’asramam.
«È stato un miracolo che su questo colle, quando necessario, sgorgasse l’acqua dove prima non ce n’era e dove nessuno pensava ci fosse e come, cessato il bisogno, l’acqua scomparisse nuovamente.
Non potete immaginare in che stato si trovava originariamente il posto. Kandaswami lavorò con uno sforzo quasi sovrumano, con le sue mani fece ciò che neanche quattro uomini messi insieme avrebbero potuto fare. Tolse tutti gli alberi, rimosse le pietre e i massi dal terreno, appianò e livellò il suolo, creò un giardino ed eresse l’Asramam. Ci donarono quattro palme da cocco da piantare e Kandaswami scavò grandi fosse quadrate, di circa dieci piedi di profondità. Ciò potrà darvi un’idea della gran mole di lavoro che compì. Era un uomo forte e ben costruito (36).
L’arrivo di Alagammal, la madre di Ramana, portò un cambiamento nello stile di vita degli asceti. Prima del suo arrivo, Ramana e gli altri rinunciatari dovevano andare in città a mendicare il cibo tranne nel caso in cui qualche devoto si preoccupava di portarglielo. Il primo asram nacque, qualcuno dice, proprio con la creazione della cucina. Appena fu nota l’idea che a Skandasram si voleva impiantare una cucina, i devoti che risiedevano in città portarono gli utensili necessari senza che gli fossero chiesti. Chhaganlal Yogi (37) racconta di come la madre di Ramana, quando aveva la necessità di qualche cosa per la cucina, semplicemente andasse dal figlio dicendogli: “Servirebbe un mestolo”, e lui rispondeva: “Vedremo”. Poi, senza chiedere o fare nulla per procurarsi l’oggetto richiesto, accadeva che dopo due giorni un devoto arrivasse con mezza dozzina di mestoli ponendoli ai piedi della madre. «Abbiamo bisogno di un vassoio», «Vedremo» e dopo qualche ora arrivava un discepolo con un vassoio dicendo: «Ho pensato che vi potesse essere utile». Si racconta che fu in questo modo che sorse la cucina di Skandasram.
Della cucina se ne occupava Agammal, Ramana tuttavia ben volentieri dava una mano. Un giorno la madre volle preparare il poppadum, una specie di schiacciata fatta di farina di ceci neri e sfoglia fritta e lo chiamò perché l’aiutasse. Ramana in quell’occasione invece di darle una mano compose il canto del poppadum.
«Non c’è bisogno di andarsene per il mondo e sentirsi scoraggiati: fa il tuo poppadum in casa secondo la lezione di “Tu sei quello”, senza paragone. L’Unica parola, mai proferita, senza parlare, chiara parlerà. Intatto è il silenzio di Colui che è il saggio esperto, la grande apoteosi, col suo eterno retaggio di Essere-Saggezza-Beatitudine. Fa il poppadun e, quando è pronto, friggilo e mangialo, così potrai soddisfare i tuoi appetiti.
Il raccolto dei grani di ceci neri è il cosiddetto ego o sé, cresciuto nel corpo, il fertile campo delle cinque guaine. Mettilo dentro la macina di pietra del mulino, che è la ricerca della Saggezza, il “Chi sono?”. Soltanto in questo modo il Sé guadagnerà la libertà. Questo dovrà esser frantumato e ridotto in polvere finissima come il non-sé; perciò dovremo distruggere i nostri attaccamenti. Fa il poppadum e quando è fatto friggilo mangialo, così i tuoi appetiti potrai soddisfare».
Alla piccola comunità si aggiunse successivamente anche il fratello minore di Ramana, Nagasundaram, che era rimasto vedovo. In seguito divenne monaco prendendo il nome di Niranjananda svami. All’inizio Ramana fu duro con la madre, ma poi, piano piano, la madre di Ramana iniziò a cambiare e si vestì di arancione, i colori della rinuncia del samnyasin e così divenne la Madre di tutto l’asram.
Nel 1922 la madre si ammalò per l’ultima volta e tutte le attenzioni e cure furono inutili.
Bhagavan, il 19 maggio del 1922, presentendo che quello era il giorno in cui la madre avrebbe esalato l’ultimo respiro si sedette al suo fianco e le pose una mano sul petto e l’altra sulla testa. Disse a tutti di andare a mangiare perché, se lei fosse morta, sarebbe stato considerato impuro, dalle persone ortodosse mangiare in una casa dove si era posata la morte. Alcuni andarono a mangiare, altri rimasero.
Quando il suo passaggio sembrava imminente, Ganapati Muni, T.K. Sundaresa Iyer, e altri discepoli decisero di recitare delle strofe dei Veda. Dall’altro lato della stanza, Saranagati Ramaswami e un signore del Punjab iniziarono a recitare il Rama Japa (ripetizione del Nome di Rama). Poi tutti iniziarono a cantare Aksharamanamalai e Arunachala Shiva.
Fra i canti e la recitazione di sacre scritture, la Madre, lasciò il corpo. Bhagavan continuò a tenere le sue mani sul suo cuore e sulla testa. A chi si meravigliava che egli stesse ancora seduto disse:
«Quando Palaniswami diede il suo ultimo respiro feci la stessa cosa. Poi, quando pensai che l’anima fosse calata nel cuore rimossi le mie mani. Egli aprì gli occhi e la forza vitale uscì dagli occhi. Così questa volta, per essere certo, ho lasciato le mani più a lungo di quanto fosse necessario».
Si alzò e disse ‘Ora possiamo mangiare, andiamo, non vi è contaminazione’
Ganapati Muni sollevò la questione sulla possibilità che una donna possa raggiungere lo stato di realizzazione. Bhagavan affermò che lo stato di realizzazione non è relato alla forma del corpo grossolano. Kunju svami lasciò un racconto di questo evento e scrisse: «noi tutti, ci sentimmo soddisfatti che la Madre aveva conseguito la liberazione e fummo felici. Felicissimi, in verità, perché adesso vedevamo la faccia e il corpo della Madre irradiare splendore e luce (38).
Poiché Bhagavan le diede la mukti, il suo intero corpo splendeva e così fu deciso che il corpo della Madre avrebbe avuto una sepoltura cerimoniale, invece della consueta pira per le vedove brahmine. Il corpo fu adornato con kumkum, malas e fiori. Si stabilì che il corpo della Madre fosse seppellito vicinoa Pali Tirtham. La morte della Madre fu tenuta segreta perché si temeva che, se si fosse diffusa la notizia, si sarebbe radunata un’inimmaginabile folla al samadhi (funerale). Solo i parenti della madre furono avvertiti con un telegramma.
Usando dei fusti di bambù legati insieme, il corpo della Madre fu portato a Pali Tirtham da Skandasramam.
Il corpo fu posto sotto un albero di Asavastha e Bhagavan sedette lì vicino con altri devoti. La mattina seguente arrivarono i parenti da Tiruchuzhi e da altri luoghi. Nel frattempo, nonostante la riservatezza, la città intera seppe della morte della Madre. Molti negozianti arrivarono con scorte di banane, canfora e altre offerte, i pandit recitavano le scritture e Bhagavan sedeva maestosamente accanto al corpo. Sembrava di essere in un tempio.
C’erano molti cactus selvaggi in quel luogo e mentre alcuni devoti li rimuovevano, Perumal Swami scavò la fossa e costruì il samadhi. Intorno alle undici ogni cosa fu pronta.
Bhagavan indicò alcuni passaggi del Tirumandir, un testo scritto dal grande saggio Tiruvarul, in cui viene spiegato che il corpo dello jnani deve essere seppellito e non arso. Conformemente, il corpo della madre venne portato alla fossa del samadhi e ivi deposto, Bhagavan sparse sul corpo un grande quantità di vibhuti (cenere sacra) mentre altri continuarono aggiungendo canfora e pasta di sandalo, seguendo pienamente le ingiunzioni del santo Tiruvarul. Poi il samadhi venne chiuso, delle pietre furono poste su di esso e fu costruito un piccolo reliquiario.
Dopo la cerimonia, Ramana e il suo seguito si spostarono a Palakottu dove si organizzò il pranzo per circa duecento persone. Alla testa della processione c’era un gruppo di musicisti con tamburi e corni. La distanza per Palakottu era solo di duecento iarde (circa duecento metri), ma Bhagavan camminava così lentamente che ci vollero due ore per coprire l’intero percorso.
Sulla tomba della madre fu poi costruito un tempio ed eretto un linga. Nirajanandi Svami (il fratello di Ramana) andò a risiedere lì, in un edificio dal tetto di paglia.
RAMANASHRAMAM
Ramana continuò a vivere a Skandasram, ma andava a visitare la tomba della Madre ogni giorno. Verso la fine del medesimo anno, il 1922, il Maharshi scese da Skandasram e si stabilì presso la tomba della Madre. Egli diede la seguente spiegazione: «Non fu per mia volontà che mi spostai da Skandasram. Qualcosa mi condusse qui e io obbedì. Non fu una mia decisione, ma la Volontà divina ».
Dopo i funerali della Madre tutti ritornarono a Skandasram. Alcuni sentirono che l’aver costruito il samadhi non fosse sufficiente e che era necessario porre un linga sopra la tomba della Madre a cui dedicare giornalmente una puja celebrando anche il Mandala Abhishekam nel quarantottesimo giorno dalla morte.
Chinnaswami iniziò a celebrare la puja e un linga fu eretto. Sopra il samadhi si realizzarono anche altre costruzioni prima del quarantottesimo giorno. Il giorno del Mandala Abhishekam Bhagavan e tutti i suoi devoti andarono a Pali Tirtham per la cerimonia.
Furono preparate differenti specie di prasad (cibo consacrato al Divino) per quell’occasione e in tal modo il Mandala Abhishekam fu celebrato in grande magnificenza.
In quei giorni alcuni devoti erano soliti inviare dalla città a Skandasram una sporta con le provviste giornaliere. Così Chinnaswami e Dandapaniswami poterono iniziare a cucinare a Pali Tirtham cibi ricercati e preparare persino il caffè al mattino. Sri Ramakrishnaswami e altri erano tentati di scendere all’asram e un giorno Chinnaswami invitò Kunjusvami all’asram per mangiare lo speciale Mulagutami Dosai che stava cucinando. Così disse: “Vieni domani mattina. Dopo aver mangiato puoi prendere un po’ di cibo per portarlo a Skandasram per Bhagavan”, Kunjsami scese all’asram la notte stessa, pensando che in questo modo avrebbe potuto prendere il dosai per Bhagavan la mattina presto.
Alla sera Bhagavan chiese a Ramakrishnaswami dove fosse andato Kunjuswam che e gli venne risposto che era andato al samadhi della Madre per prendere il dosai.
La mattina presto, Bhagavan si copri con uno scialle, e scese a Pali Tirtham. Silenziosamente si sedette accanto ai suoi devoti e disse. “non c’è nulla per un Atithi (ospite)”?
Gli venne offerto dosai caldo e caffé con latte di capra. Scherzando Bhagavan disse: «adesso capisco perché tutti, uno dopo l’altro, sono tentati di andarsene da Skandasramam».
Shaday Shettiyar, il curatore di Draupadi Koil, il fratello più giovane della signora che aveva coperto di paglia il casotto costruito sopra l’altare della Madre, venne a sapere che Bhagavan era sceso giù. Poiché sua sorella non poteva salire a Skandasram per visitare Bhagavan, Shettiyar decise di portarla per il darshan di Bhagavan a Pali Tirtham ed andò in città per prenderla. La sorella arrivò con un carro pieno di provviste e con il desiderio di cucinare e offrire Bhiksha (offerta di cibo) a Bhagavan.
Ganapati Muni, che era a Skandasram, lo venne a sapere e così, dopo aver fatto colazione, anche lui scese a Pali Tirtham. Ogni volta che ci andava aveva l’abitudine di dialogare per almeno un’ora con Bhagavan su diversi argomenti. Vennero anche altri e tutti sedettero di fronte a Bhagavan. Si fece buio e poichè non c’erano torce accese decisero di trascorrere la notte vicino all’altare della Madre e tornare all’asram la mattina seguente.
Al mattino, mentre si stavano preparando a rientrare, arrivarono la sorella di Bhagavan e il marito portando anche loro varie provviste da cucinare per offrire Bhiksha a Bhagavan. Così, per non dispiacergli, Bhagavan rimase.
Ramakrishnaswami, capendo che Bhagavan non sarebbe ritornato, porto giù la kaupina (perizoma) di Bhagavan e altre cose necessarie. Per alcuni giorni, l’uno o l’altro, offrirono il Bhiksha e Bhagavan rimase giù ai piedi della collina.
Chinnaswami chiese a Kunjuswami e a Gopala Rao di tornare a Skandasram per custodire le cose che erano là. Per otto o dieci giorni rimasero a custodire Skandahram e ogni giorno il cibo gli veniva mandato su. Kunjusvami però iniziò a pensare che doveva rimanere vicino a Bhagavan e non a custodire cose ed oggetti. Appena formulato questo pensiero, lui e Gopala Rao decisero di tornare a Pali Tirtham.
Chinnaswami domandò per quale motivo avessero lasciato Skandasram e così si decise che sarebbero tornati su la mattina seguente. Al mattino arrivò qualcuno per informare che tutte le cose di Skandasram erano state rubate. Bhagavan allora disse: “Adesso non è più necessario che qualcuno vada a proteggere le proprietà». Questa osservazione rese chiaro che Bhagavan approvava i devoti che volevano rimanere al samadhi della Madre a Pali Tirtham e pertanto non c’era più alcuna necessità di invitare Bhagavan a rimanere.
A poco a poco tutti quelli che ruotavano attorno alla sua figura si sistemarono a Pali-Tirtham dove la Madre era stata sepolta. Così nacque il Ramanasramam e Ramana vi rimase fino alla sua morte.
Un abitante del villaggio vicino all’asram fece un sogno in cui gli fu detto di offrire il primo vitello che sarebbe nato dalle sue vacche al Ramanasramam. Egli, in adempimento alla richiesta avuta in sogno, portò la prima vitellina che nacque, insieme alla madre, a Ramana. L’asram a quel tempo era circondato da una fitta giungla e c’erano dei ghepardi che cacciavano nei dintorni. Le persone dell’asram rifiutarono l’offerta in quanto non volevano assumersi la responsabilità della mucca e della sua vitella. Il padrone delle bestie però considerava con estrema serietà il suo sogno e non voleva assolutamente riportarsele indietro. Alla fine la mucca e la vitella furono affidate ad alcuni devoti che risiedevano in città. Alla vitella fu dato il nome di Lakshmi. Lakshmi andava ogni giorno all’asram per pascolare e per sedersi accanto a Ramana nella sala. La sera, come facevano le altre donne, ritornava in città.
Ramana aveva un grande rispetto per tutti gli animali e in un’occasione disse:
«Non è vero che la nascita nello stato umano sia necessariamente la più alta, e che la realizzazione possa essere raggiunta soltanto da un essere umano: anche un animale può raggiungere l’auto-realizzazione (39).
Una volta Lakshmi entrò nella sala mentre Ramana stava leggendo i giornali e iniziò a leccare i fogli. Ramana la guardò e disse: «Aspetta un momento Laksmi», ma la mucca continuò a leccare i fogli. Allora Ramana posò il giornale e mise le sue mani dietro le corna della mucca, poggiò la fronte sulla fronte dell’animale, rimanendo entrambi immobili. Dopo un po’ Ramana si girò verso Shantammal che assisteva sbalordito alla scena e gli disse «Sai cosa sta facendo Laksmi? È in samadhi». La mucca rimase immobile con il respiro sospeso fino a quando Ramana le disse «Laksmi come ti senti adesso?» al che la mucca, girando attorno a Ramana, se ne andò. Dopo questa esperienza Laksmi non tornò più la sera in città e si sistemò definitivamente al Ramanasramam (40).
Il 17 giugno del 1948 Laksmi si ammalò. Il mattino seguente era palese che era ormai prossima alla morte. Ramana andò da lei e la salutò chiamandola madre, prese la sua testa sulle ginocchia, la guardò negli occhi e le tenne una mano sul cuore e l’altra sulla testa rimanendo così finchè Laksmi non abbandonò il corpo. Secondo la tradizione, il corpo di uno jnani doveva essere interrato e non arso sulla pira funebre, così Laksmi ebbe una sepoltura cerimoniale e sulla sua tomba venne posta una statua e una lapide funebre su cui Ramana scrisse in tamil che Laksmi aveva conseguito la liberazione.
ATIASRAMI
Il Ramanasramam all’inizio era solo composto da qualche capannuccia costruita attorno al samadhi della Madre; ma lo stabilirsi di Ramana a Pali Tirtham portò allo sviluppo dell’insediamento.
Nel 1993 l’asram copriva quattordici acri di terreno. Il tempio Mathrubhutheswara e la sala del samadhi erano circondati dalle case per gli ospiti, e da altri edifici: due dormitori, un dispensario, una scuola vedica, una stalla, uffici, una libreria, una grande cucina e una sala da pranzo. L’asram contava anche tutta una serie di altre strutture e, oltre ad avere la custodia di Skandasram, aveva pure acquisito la proprietà della grotta di Virupaksha.
È singolare come attorno a queste figure di rinunciatari poi sorgano, sotto la pressione dei devoti, delle strutture così diversificate che presentano notevoli aspetti di complessità per ciò che riguarda la gestione amministrativa e contabile. Un asram è una struttura complessa e la sua gestione richiede una certa organizzazione logistica.
Così, quando l’asram divenne anche un centro di interessi economici, sorsero inevitabilmente delle liti perché qualcuno, più intraprendente degli altri, pensò di impossessarsi dei beni dell’asram e mentre Ramana era ancora vivo. Un suo vecchio devoto, Perumal Swami, avanzò difatti la pretesa che l’asram fosse di sua proprietà dichiarando di essere l’unico amministratore legale, a dispetto dello stesso Saggio attorno e per il quale era sorto l’asram. La questione finì in tribunale e la causa si protrasse per vent’anni prima di essere risolta. Perumal basò le sue pretese su queste considerazioni:
«Ramana, essendo un samnyasin non poteva legalmente possedere terreni né altre proprietà. Non possedendo nulla egli non poteva designare come amministratore suo fratello. Poiché era stato lui l’indiscusso amministratore di Skandasram e non avendo Ramana, per le ragioni su citate, la possibilità di rimuoverlo, egli, per logica, era anche l’amministratore del Ramanasramam ».
Ramana fu chiamato a rispondere ad un interrogatorio alla presenza dei due avvocati in causa: quello che tutelava gli interessi dell’asram e quello di Perumal in quanto la contesa giudiziaria verteva sulla proprietà dell’universalità di beni che costituiva Ramanasramam.
«Domanda: Avete lasciato casa in giovane età perché non avevate attaccamento per casa e proprietà. Ma qui si dibatte sulla proprietà dell’asram. Come si spiega?
R: Io non la cerco. Le proprietà sono cadute su di me. Io né le amo né le odio.
D: Sono state date a voi?
R: Sono state date allo Svami, chiunque egli fosse. Ma poiché è il corpo ad essere considerato lo svami nel mondo, quel corpo è questo. Esso riduce sé stesso a me.
D: Come avete potuto approvare la costruzione di Skandasramam sulla Collina che era terra per tempio senza aver preventivamente ottenuto il permesso dalle autorità?
R: Guidato dallo stesso Potere che mi fece venire qui e risiedere sulla Collina.
D: Voi non toccate soldi né altre offerte, credo.
R: La gente qualche volta pone dei frutti nelle mie mani e io li tocco.
D: Se ricevete qualche specie di offerta, perché non ricevete anche soldi?
R: Non posso mangiare i soldi. Che ci potrei fare con essi? Perché dovrei prendere ciò di cui non so che farmene?
La Corte dovette esaminare prima di tutto una questione di basilare importanza per il prosieguo del processo e cioè a quale asrama (stadio della vita) appartenesse Ramana (41). Come già detto, per la legislazione indiana chi abbraccia formalmente la rinuncia ed entra in un ordine tradizionale di samnyasin può considerarsi legalmente morto e per tanto i suoi beni confluiranno nel patrimonio dei suoi eredi.
Ma poiché Ramana non espresse mai la sua rinuncia al mondo in modo formale ed era consapevole di esser stato chiamato dalla corte perché attestare l’asrama a cui apparteneva, iniziò la sua deposizione con il ricordo delle circostanze che lo portarono a Tiruvannamalai.
«Di nascita sono bramino. Quando venni in questo luogo avevo diciassette anni. La mia upanayana (la cerimonia del cordone brahmino) fu celebrata prima che venissi qua. Vivevo fra gente che era nell’ashrama grihastha (capifamiglia). Entro un’ora da quando venni in questa città, abbandonai il mio cordone mi lavai la testa (42). Avevo più o meno tre rupie, gettai anche quel denaro.
Gettare via il cordone significava gettare via il segno visibile del suo appartenere alla casta dei brahmini, lavarsi la testa e gettare le monete significava che egli aveva rinunciato ai possedimenti terreni e abbracciava la vita del samnyasin senza però aderire formalmente a un ordine di samnyasin tradizionale. Quindi Ramana abbracciò la vita del sadhu a diciassette anni. Quarant’anni dopo il suo arrivo a Tiruvannamalai, fra novembre e dicembre del 1936, di fronte a una Corte di giustizia, fu chiamato in una lite civile che aveva ad oggetto delle proprietà proprio colui che a diciassette anni aveva gettato via tutto ciò che gli apparteneva per rimanere nudo e solo con il Solo. Lui che da allora aveva indossato solo un pezzetto di stoffa per coprire le parti intime per rispetto dell’altrui pudore.
Gli fu domandato a quale asrama appartenesse. La risposta di Ramana fu sorprendente in quanto non disse di essere, come ci si aspettava, un samnyasin, ma neanche disse di appartenere agli altri tre asrama. Disse di appartenere all’atiasrama. Gli si chiese che cosa fosse l’atiasrama e lui rispose che è aldilà dei quattro asrama comunemente conosciuti. L’interrogante chiese se quello che diceva avesse un fondamento negli shastra, Ramana rispose affermativamente.
Fu su questo punto cruciale che si videro crollare i fondamenti delle pretese della parte avversa. Ramana venne interrogato a fondo dall’avvocato di Perumal.
Domanda: Avete parlato di atiasrama l’altro giorno. C’è una autorità per esso è menzionato da qualche parte?
Bhagavan: Si, nelle Upanishad, la Suta Samhita dello Skanda Purana, Bhagavata, Barata e altre opere.
D. Ci sono restrizioni o discipline per questo stato?
B. Ci sono delle caratteristiche di esso menzionate.
D. C’è un Guru per ciascun asrama. C’è un Guru per un atiasrama?
B. Si.
D. Ma voi non ammettete un Guru.
B. C’è un Guru per ciascuno. Io ammetto un guru anche per me.
D. Chi è il vostro Guru?
B. Il Sé.
D. Per chi?
B. Per me stesso. Il Guru può essere interno o esterno. Egli può rivelare sé stesso internamente o esternamente.
D. Può un atiasrami avere proprietà?
B. Non ci sono restrizioni per loro. Essi possono fare ciò che ad essi piace. Suka ha detto di essere sposato e di aver avuto anche figli.
D. Allora un atiasrami in quel caso è come un capo famiglia.
B. Ho appena detto che è al di sopra dei quattro asrama riconosciuti.
D. Se possono sposarsi, avere proprietà ecc. essi sono solo grihasta.
B. Questa può essere la vostra visione.
D. Possono avere proprietà e trasferirla ad altri?
B. Possono o non possono. Dipende dal loro prarabdha ( destino).
D. Ci sono Karma (regole) per loro?
B. La loro condotta non è regolata secondo regole o codici (43).
In seguito a questa vicenda il gruppo dei discepoli anziani fece presente a Bhagavan che persino ora mentre lui era presente erano stati tormentati e che erano preoccupati di quel che sarebbe potuto accadere una volta che lui fosse morto. Ramana chiese: « Dunque che cosa suggerite di fare?» e loro proposero di nominare un gruppo di amministratori.
Ramana rispose: «Degli amministratori potrebbero non avere un reale interesse nella gestione dell’asram e usarlo solo per i propri scopi, come una vacca da latte. È meglio che abbiano permanentemente l’amministrazione quelli che gli sono legati per sangue e per sentimento».
Fu così deciso che la miglior cosa da fare fosse di redigere un testamento. Della stesura della bozza del testamento fu incaricato Sundaram Chetty un giudice, non più in servizio, dell’alta corte di Salem. La bozza fu letta, clausola dopo clausola, a Ramana alla presenza di mezza dozzina di devoti di un determinato grado sociale come testimoni. Ramana approvò il documento apportando poche correzioni. Gli fu chiesto se avesse ben inteso il senso di ciascuna clausola e se la accettasse, una volta espresso il suo consenso si passava alla successiva. Bhagavan aveva una calligrafia perfetta, alcuni suoi scritti in Tamil sembrano delle stampe e denotano una notevole pulizia e precisione del tratto, eppure in quell’occasione espresso il proprio consenso alle singole clausole siglando ogni pagina con una X e al termine firmò con una linea dando così la sua approvazione generale al testamento. La linea seguiva la seguente dichiarazione: “Come segno della mia volontà di eseguire questo documento, vi appongo la mia firma e autorizzo G. Sambasiva Rao a siglare per me in mia presenza poiché non ho l’abitudine di apporre la mia firma. I testimoni firmarono a loro volta e l’atto venne registrato.
«Io non appartengo a nessun ordine di samnyasin, ma se un nome deve essere dato al mio stato, io sono un atyasramita. Nel corso del tempo mi furono donate diverse contribuzioni di denaro con cui furono costruiti sale, magazzini e altri edifici quali pozzi, serbatoi e altre opere d’utilità. Tutte le proprietà di seguito descritte e comprese in quello che è chiamato “Sri Ramanasramam” (compresi i suoi successivi ampliamenti) sono dedicati da me all’idolo attualmente installato e consacrato nell’asram: Sri Mathrubhutheswara Swami e anche all’idolo o alla statua che sarà installata come mio simbolo in un posto appropriato nello stesso Asram e che verrà consacrata dopo il mio decesso e posta sul mio samadhi. Indico mio fratello, Nirajananda svami, come amministratore unico dell’asram. Dopo di lui, sarà amministratore unico T.N. Venkatarama Iyer. Questo diritto di amministrazione si trasmetterà come un diritto ereditario ad un familiare dell’ultimo amministratore e succederà secondo la linea maschile di discendenza di generazione in generazione. Tutto ciò al fine di rendere quanto più possibile Sri Ramanasramam un centro per la diffusione della conoscenza spirituale ed un luogo di santità che renda possibile la realizzazione degli obiettivi relati al progresso spirituale. Dopo aver fatto fronte alle spese necessarie dell’asram cioè la Puja, il Naivedyam, la cura degli Idoli, l’amministratore potrà prelevare dall’eccedenza delle entrate, ciò che è necessario per il mantenimento di sé stesso e della sua famiglia»(44).
Dopo il mahanirvana di Ramana ci furono diversi tentativi legali di contestare ai familiari di Ramana l’amministrazione dell’asramam e delle sue proprietà e il testamento giocò, in queste cause, un importantissimo ruolo.
IL MAHASAMADHI
Nel 1947 la salute di Ramana iniziò a declinare. Nel febbraio del 1949 fu notata una piccola escrescenza sotto il gomito sinistro simile per colore e forma a un cece nero. All’inizio si pensò che durante la notte, muovendosi al buio, avesse urtato il recinto del giardino dove qualche volta si recava di notte quando si svegliava. Ad un certo punto il fatto fu riferito al dottor Shankar Rao, un medico in pensione che praticava servizio come medico dell’asram. Il dr. Srinivasa Rao (devoto) insieme ad un altro devoto, esaminarono attentamente l’escrescenza e furono concordi nella decisione di asportarla. L’intervento fu fatto in modo riservato e senza anestesia. Dopo un mese sembrava che la ferita si fosse ben rimarginata, ma nel braccio spuntò un’altra escrescenza. Venne chiamato da Madras un eminente chirurgo, il dottor Raghavachari chela rimosse, in anestesia locale, il 27 di marzo. Furono fatte delle analisi e si scoprì che si trattava di un tumore della pelle chiamato sarcoma. Si decise pertanto di iniziare la radioterapia mentre, nello stesso periodo, un medico ayurvedico prescrisse delle erbe da applicare alla ferita, ma la salute di Ramana si deteriorò velocemente.
Ramana diventava ogni giorno più debole e a volte, quando si alzava dal divano, le sue membra erano scosse da un violento tremore che le persone che erano con lui avevano paura che cadesse. Lui cercava di minimizzare l’angoscia dei suoi devoti dicendo: « Oh, oh! Guardate! Sto danzando».
I dottori vollero prelevare un po’ di tessuto per effettuare delle analisi e nel farlo tentarono di anestetizzare Ramana ma lui, in modo fermo e deciso non volle. Durante l’asportazione di parte del tessuto tumorale, Ramana diede segni di grande sofferenza e il medico che aveva protestato alla sua decisione irremovibile di non usare anestetico osservò: «Vi avevo detto che sarebbe stato estremamente doloroso», «Sì», replicò Bhagavan: «Il corpo sperimenta sofferenza. Ma io sono il corpo?» (45).
Ci fu una terza operazione di rimozione delle parti malate il 7 agosto del 1949, ma il tumore riapparve e venne consigliata l’amputazione del braccio. Ramana disse: «Non è il caso di allarmarsi. Il corpo è in sé stesso una malattia. Lasciate che abbia la sua fine naturale. Perché mutilarlo? Basterà una semplice medicazione sulla parte colpita»(46). Si fece un’altra operazione il 19 dicembre di quell’anno che, come tutte le altre operazioni, fu eseguita nel dispensario dell’asram.
Nel febbraio del 1950 apparve una nuova massa tumorale. Molti devoti persero la speranza che Ramana potesse salvarsi la vita, alcuni invece credevano che Ramana non potesse morire a causa di questa malattia, in quanto un saggio come Bhagavan non avrebbe potuto soccombere ad una comune afflizione mortale.
Mano a mano che il suo corpo si indeboliva, la sua magnifica aura e il suo sguardo splendente con cui aveva sondato l’anima dei suoi devoti lasciando in loro un’impressione e un mutamento indelebili, sembravano espandersi ancora di più. Un suo devoto, Balam Reddy, durante l’ultima fase della sua malattia, vedeva un’aura luminosa in cui era immerso Bhagavan, ma la imputava al suo stato d’animo e alla sua devozione. Un giorno accompagnò un ministro del governatorato di Madras che era venuto in visita all’asram. All’uscita il ministro gli domandò cosa fosse quella brillantezza o radianza che pervadeva la stanza del Maharshi.
Il 15 marzo, un team di medici allopatici si riunirono nel dispensario dell’asram e si confrontarono sulle condizioni fisiche di Ramana. La conclusione fu che Ramana sarebbe vissuto al massimo un altro mese. La previsione si dimostrò corretta, in quell’occasione i medici dissero anche che ogni restrizione alimentare sarebbe stata inutile e che Ramana avrebbe potuto mangiare o bere ciò che più gradiva.
Intanto le notizie della sua morte imminente si diffusero portando uno straordinario flusso di devoti che volevano avere il darshan del saggio di Arunachala. Il 14 aprile, il giorno della morte di Ramana, la direzione dell’asram emise un bollettino in cui si diceva che il darshan del Saggio era sospeso, ma Ramana fece ritirare il bollettino e benché il suo corpo fosse afflitto da atroci spasimi, volle dare il suo ultimo darshan alla solita ora: dalle cinque alle sei del pomeriggio.
«Ad ogni darshan noi scrutavamo il suo viso per scorgere i segni della sua fine. Essi vennero la sera del quattordicesimo giorno di aprile. Stava disteso come al solito, ma la sua mascella rilassata cadeva lasciando la bocca aperta e i suoi occhi straordinari erano serrati. La morte era così fortemente impressa sul suo volto che centinaia di uomini e qualche donna, violando le regole dell’asram che non voleva la loro presenza dopo il calar del sole, sedevano sotto il porticato o si stringevano alla sua ringhiera aspettando nervosamente qualche novità. Un gruppo di preti brahmani del vecchio tempio si disposero a cerchio intorno a un’incensiere e iniziarono a cantare un inno alla sacra montagna. Era una canzone scritta dallo stesso Bhagavan anni prima. Dei poliziotti vennero dalla città e presero posizione. Tutti avevano gli occhi fissati su una piccola finestra tramite cui si potevamo vedere le teste degli attendenti attorno al letto di Bhagavan e il ventaglio che uno di loro muoveva avanti e indietro sopra il sant’uomo. Tutti guardavano il ventaglio: l’unico segnale che Bhagavan fosse ancora vivo.
I preti cantarono, verso dopo verso, l’inno alla Montagna sacra, la cui facciata meridionale saliva nel cielo blu scuro punteggiato di stelle sopra l’asram: “Arunachala Shiva! Arunachala Shiva! Arunachala Shiva! Arunachala”.
I devoti si muovevano inquieti sotto l’impeto delle voci. Alcune persone stavano pressate contro la ringhiera sotto la piccola finestra. Giunsero il sarvadhikarin (servitore) e sua sorella, attraversarono la folla ed entrarono nella camera dell’ammalato. La polizia spinse la gente avanti e ordinò ad altri di indietreggiare. La folla attendeva nervosamente.
All’improvviso qualcuno urlò: “Il ventaglio si è fermato!”. La folla gemette spingendosi avanti. “Mio Dio!”, disse qualcuno. Il ventaglio si mosse ancora. La voce della folla crebbe, seguendo l’incitamento dei preti che cantavano.
Il fratello riapparve sul porticato e stette davanti ai devoti, alto, sdegnoso, masticando betel. “Nessuna folla deve stare qui” strillò raucamente, agitando la mano flaccida a un gruppo che stava sotto la veranda. “Indietro!” urlò. Un assistente, camminando rapidamente, lo oltrepassò e sparì nella folla. Si sparse la voce che i più stretti discepoli di Bhagavan erano stati chiamati per l’ultimo darshan.
Un giovane indiano si precipitò da Chadwick che gli disse emozionato: “Puoi vederlo adesso!” ma il giovane disse: “Io non voglio vedere”. Chadwick irritato bofonchiò qualcosa lasciando cadere la testa fra le mani.
La concitazione della folla che si aggirava nei pressi della porta si ingigantì. Preghiere, grida e domande concitate ribollivano in un’isterica baraonda. Alcuni devoti dovettero combattere per attraversare la folla ed arrivare alla piccola stanza. Il canto dei preti si sovrapponeva alla confusione: “Arunachala Shiva! Arunachala Shiva! Arunachala Shiva! Arunachala!”.
Proprio quando la follia raggiunse il suo apice, il ventaglio arrestò definitivamente il suo movimento nella piccola stanza e una stella cadente tagliò un sentiero d’oro nel cielo sparendo sopra Sri Arunachala proprio nel momento in cui Sri Ramana Maharshi esalò il suo ultimo respiro. Una donna americana svenne e fu portata via. Un gruppo di donne indiane con i volti segnati dall’angoscia uscì dalla stanza barcollando e stringendosi le une alle altre. Dietro di loro uscirono gli assistenti portando il corpo sul suo divano e spingendosi attraverso la folla isterica entrarono nella sala del tempio. Qui tenuto su da cuscini e sommerso da ghirlande di gelsomino, il corpo che una volta ospitava un Dio sedette tutta la notte, dando un ultimo darshan ai devoti che sedevano attorno a lui cantando inni ( I saw a god die By Darrel Berrigan in The Maharshi Marzo Aprile 1993)».
Il 14 aprile del 1950, alle ore 8 e 47 di sera, con gli occhi sempre fissi sul sacro Monte, il respiro di Ramana lasciò la sua abitazione corporea.
[1] The Maharshi "The Matter of a will" maggio/giugno 1993
[2] “Gli insegnamenti di Ramana Maharshi” (a cura di A. Osborne) Astrolabio 1976, pag 12
[3] Ramana Maharshi “Opere” Ubaldini pag 12
[4] cfr. Monier Williams Sanskrit dictionary digitised by the university of Köln
[5] cfr. Glossario sanscrito edizione Asram Vidya-Parmenides
[6] T.M.P. Mahadevan “Ramana Maharshi il saggio di Arunachala” ed. Mediterranee, pag. 11
[7] tratto da “Undici versi ad Arunachala”
[8] Col termine turiya si indica lo stato di coscienza pura in cui si ha esperienza della verità ultima. E’ chiamato “quarto” in quanto è, allo stesso tempo, sottostante e trascendente i tre stati ordinari della coscienza: lo stato di veglia (jagrata), quello del sogno (svapna) e quello del sonno senza sogni: sonno profondo (susupti).
[9] “Gli insegnamenti di Ramana Maharshi” (a cura di A. Osborne) Astrolabio 1976, pag. 16
[10] Ramana Maharshi il saggio di Arunacala T.M.P. Mahadevan pag. 18
[11] Il lingam è il simbolo della Presenza vivente di Shiva nel tempio http://www.ramana-maharshi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=146:arunachaleswarar-thirukoil&catid=50:tiruvannamalai&Itemid=74
[12]David Godman An introduction to Sri Ramana’s Life and Teachings http://davidgodman.org/
[13] Ramana Maharshi: Otto strofe su Arunachala
[14] http://www.cosmicharmony.com/Sp/Ramana/Ramana.htm
[15] Molti sadhu portano i capelli molto lunghi (jata) in emulazione di Shiva, le cui lunghe ciocche di capelli sono considerate la sede dei suoi poteri sovrannaturali.
[16] D’uso nei confronti delle statue del Divino o dei Pontefici.
[17] Muliadar: “Day by Day whit Bhagavan”
[18] Muliadar: “Day By Day Whith Bhagavan”
(19) Prarabdha karma è l’insieme delle azioni pronte per dare i frutti, il risultato delle azioni passate.
(20) Dakshinamurti, manifestazione di Shiva, portò quattro dotti saggi a un’esperienza del Sé attraverso il potere del suo silenzio.
(21) Ramana Maharshi: “Otto strofe su Sri Arunachala”
(22) cfr La Via della Montagna vol. 1 - luglio 1964, n. 3 La Mitologia di Arunachala Di T. K. S.
(23) Si consideri che la Terra non è una sfera, quanto uno sferoidale e pertanto la definizione di antipodi potrebbe non corrispondere alle coste al largo del Perù.
(24) The Maharshi Arunachala the spiritual Axis of the word marzo aprile 2003).
(25) http://www.arunachala-ramana.org/photos/restored_photos/full/SOS_06.jpg
(26) Ramana Opere - La ricerca del sé Astrolabio pag. 18-19
(27) ibidem
(28) Ramana Maharshi Opere – Chi sono io, pag. 39
(29) Ramana Maharshi: “Opere – Chi sono” pag. 40
(30) ibidem
(31) Muliadar “Day by Day”
(32) Arthur Osborne “Biografia del saggio di Arunachala” - ed. Vidyananda
(33) Mahadevan pag. 43
(34) Ramana Maharshi “Opere” ed. Ubaldini, pag 90
(35) David Godman “An introduction to Sri Ramana’s Life and Teachings” http://davidgodman.org/
(36) Muliadar: “Day by Day whit Bhagavan”
(37) Living Whith the Master – Part III, The Maharshi, marzo- aprile 1994
(38) Il Maharshi Giugno - Agosto 1991 vol. 2 - n. 3
(39) Muliadar 2-9-46
(40) The Maharshi Novembre Dicembre 1998 Eternal Bhagavan di Shantammal
(41) L'insegnamento dei Veda è ripartito in sezioni (khanda) ciascuna delle quali è rivolta ad un preciso stato coscienziale che corrisponde ad un definito stadio di vita (asrama): dopo le parti dedicate agli stadi corrispondenti allo studentato (brahmacari) e alla funzione di capofamiglia (grihastha) e quella in ausilio alle pratiche degli anacoreti (vanastha), le Upanisad - o "sezione della Conoscenza" (jnanakhanda) - sono rivolte esclusivamente a coloro i quali hanno coscienzialmente abbracciato l'ultimo stadio di vita, cioè quello della rinuncia totale (samnyasa).
(42) David Godman: Bhagavan the Atiasrami The Mountain Path, 1991http://davidgodman.org
(43) Dialoghi con Sri Ramana Maharshi, dialogo n. 281.
(44) The Maharshi maggio - giugno 1993, vol. 3 – n. 3
(45) The Maharshi Luglio- agosto 1996 The recollections of N. Balaram Reddy
(46) Mahadevan Ramana Maharshi, pag 77