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Ricordi di Arunachala

Henry Le Saux: Spesso ci si interroga su come dovrebbe essere, oggi nel III millennio, un moderno sannyasin occidentale. L’interrogativo sorge quando ci confrontiamo con scritture che, un tempo oralmente, venivano tramandate di Maestro in discepolo, quale che fosse la via della montagna o della foresta. Trascritte recentemente sulle foglie di palma, in occidente sono state interpretate nelle maniere più diverse, da intellettuali, accademici, praticanti e aspiranti, tutti “a condimento” di quelle figure, più o meno intessute di ocra, che per prime ci hanno introdotto alle filosofie e alle mistiche indiane.

Swami Yogananda e Swami Vivekananda fra tutti, ma non possiamo poi dimenticare coloro che, forse meno famosi, tanto hanno lavorato, qui in occidente, spesso in silenzio e senza alcuna platea, affinché l’antico lignaggio upanishadico e vedico avesse una sponda ove approdare e finalmente germogliare per poter, nuovamente, porgere i frutti tradizionali ad occidente ormai dimentico di cosa significasse avere l’accesso diretto ad un Parmenide, un Pitagora, Platone, un Plotino.

Assaggiati questi frutti, è sorta la domanda: come dovrebbe essere un moderno sannyasin occidentale? C’è chi nega, addirittura, la possibilità che un uomo preso dall’occidente, i suoi doveri, le sue distrazioni, possa avere anche solo l’accesso ai sannyasa, altri ritengono che, forse, non è dato ad alcuno, dire come debba o non debba essere.

Henri Le Saux può essere l’esempio non di come debba essere ma di come sicuramente possa essere un sannyasin occidentale, anche se ha lasciato il suo corpo qualche decennio prima della fine del II millennio. Entrato nel monastero benedettino di Sainte Anne di Kergonan nel 1929, a 19 anni, vi viene ordinato nel 1935. Alla ricerca di un monachesimo delle origini, si reca in India nel 1948, dove, nel gennaio 1949, ha l’incontro che lo segnerà per tutta la vita: si reca a Tiruvannamalai, dove incontra Sri Ramana Maharshi. Lo vedrà ancora una volta, nello stesso anno, in una visita che lo inizia alla via ascetica di Arunachala. Questo libro è una lunga e deliziosa dichiarazione di amore, il supremo amore che l’Uomo può sviluppare per il Divino, un Divino non circoscritto ad un luogo, ad un tempo, ad una religione, ad un fondatore.

È la piena espressione della bellezza del Cristianesimo, il farsi Cristo per amare, attraverso Lui, ogni essere, ogni parte di questa manifestazione, per poter, attraverso l’amore per ogni parte, potersi ricongiungere al Divino stesso, come scintille che ritornano alla fiamma primigenia. Il suo stesso nome, originariamente Abhishikteshvarananda, Colui la cui beatitudine è nel Cristo, l’Unto dal Signore, dichiara quale sarà il percorso che seguirà interiormente per integrare la meta suprema. *Nei Ricordi di Arunachala, l’autore riporta, in forma narrativa, il racconto autobiografico della sua vita da eremita, nelle grotte della Montagna di Fuoco.

Con grande semplicità, autoironia e una rara capacità di penetrazione della mentalità orientale, Abhishiktananda ci offre una testimonianza assolutamente unica. Proprio in quanto monaco tra monaci e non un visitatore, egli entra in contatto con la spiritualità indiana autentica, ben lontana dai «santoni» propagandati in Occidente o dai «mercanti di advaita», ma costituita da quei «santi» che, celati agli occhi del mondo, rappresentano i veri eredi della millenaria tradizione spirituale dell’India. L’incontro con Ramana Maharshi, che costituirà un evento decisivo nella vita dell’autore, apre la narrazione e sarà la silenziosa figura seminuda del saggio, intravista tra i fumi degli incensi, che accompagnerà Abhishiktananda, come una presenza continua, un «basso di fondo» nel suo cammino di ricerca.

Tuttavia il vero incontro con il Maharshi e l’intima comprensione del suo insegnamento avverranno attraverso l’unica via possibile, attraverso l’unica lingua che non ha bisogno di traduzioni, il silenzio della Montagna, eterna icona del Signore Shiva: Arunachala. Situata nel Tamil Nadu Nord-orientale, nel distretto di Arcot Sud, a 187 chilometri da Chennai (Madras), Arunachala è uno dei luoghi più sacri della tradizione shivaita. Il nome, dal sanscrito aruna, aurora, e achala che significa immobile, e dunque anche montagna, è dovuto al fatto che nelle prime ore del mattino, prima che il sole sorga a Est, la montagna si veste del colore rosato dell’alba.

Costituita da antichissime rocce plutoniche, Arunachala è identificata dalla mitologia puranica con Shiva stesso, del quale rappresenta il linga, il segno. Ai suoi piedi sorge la città di Tiruvannamalai con l’imponente tempio di Annamalaiyar dove migliaia di devoti accorrono ogni anno, gremiti all’ombra dei colossali gopura, per avere il darshan, la visione della luce divina che si leva sulla sommità della Montagna. Nel corso dei secoli, migliaia di persone hanno abbandonato tutto, vinte dall’irresistibile fascino di Arunachala, per ritirarsi a meditare in povertà e solitudine nelle sue grotte. La vita e la grandezza della maggior parte di queste sono rimaste nascoste alla storia, indissolubilmente legate al silenzio della Montagna. Fra coloro il cui destino ha voluto che fossero conosciuti al mondo, Ramana Maharshi costituisce un’autentica incarnazione dell’advaita, l’intuizione upanisadica della non dualità.

Inizialmente Abhishiktananda era attratto soprattutto dall’idea di poter condurre una vita eremitica in semplicità e silenzio, secondo la tradizione monastica indiana, come uno dei tanti sannyasin che nel corso dei secoli si sono succeduti nelle rocciose spaccature della Montagna di Fuoco. Poco a poco, tuttavia, egli viene vinto dal fascino di Arunachala che «rivela il suo segreto a coloro che hanno tempo per ascoltare». D’ora in poi sarà la Montagna stessa a chiamarlo:«Vieni, su, vieni!», sarà la Montagna a parlargli attraverso i suoi inesprimibili silenzi, attraverso le parole di un sadhu o la mano di un ladruncolo, destandolo alla divina presenza.

Ciò che sicuramente stupisce e sconcerta è proprio questo rapporto con la Montagna: una montagna che chiama, che tiene prigioniero, che lega indissolubilmente a sé colui che le ha donato il cuore. Ed è proprio in questo denso e intimo dialogo con Arunachala che si coglie la profondità con cui Abhishiktananda è riuscito a fare sua la spiritualità hindu. Il sannyasin bretone, con la genuinità dell’uomo che cerca la vera conoscenza, abbandona ogni preconcetto o scetticismo europeo calandosi a tal punto nell’universo brahmanico da riuscire a sollevare il velo della superstizione e del feticismo, un velo che tanto spesso abbaglia la mente occidentale, talvolta incantandola e talvolta disgustandola, ma che solo se è riconosciuto e superato dischiude le porte della reale comprensione.

Invece di chiudersi nell’orgoglio del proprio «evoluto monoteismo», guardando con sufficienza e divertimento le innumerevoli divinità dalle fantasiose raffigurazioni che popolano il pantheon indiano, Abhishiktananda ha poco a poco lasciato tutto ciò che costituiva l’esteriorità fisica e psicologica del suo essere cristiano, mantenendo però salda l’unica cosa importante, la sua fede nel sadguru, il Cristo.

Solo così è riuscito a cogliere la sostanziale unità che sta alla base della cultura hindu e ne permea il caleidoscopico mondo di immagini e forme: la coscienza del Brahman, l’Eterna Presenza, la Realtà Assoluta oltre qualunque rappresentazione o utilitaristica adorazione. Una coscienza che, sola, riesce a far coesistere un indicibile numero di differenti correnti filosofiche e di espressioni devozionali, nell’ambito di quello che viene definito induismo. Ben lontano dall’attribuire a una montagna, per quanto venerata, chi sa quali miracolosi poteri, l’autore ha comunque fatto proprio quel linguaggio mitico e figurato che è così tipicamente indiano. A questo proposito scrive al suo discepolo Marc Chaduc: «Quando sali sulla sua sommità [...], bevi alle sue sorgenti, penetri nelle sue grotte, non dimenticare che Arunachala è un segno, e che ogni segno alla fine si fonde nella sua res [realtà]. La vetta, le grotte, le acque, tutto questo è il tuo stesso mistero! E Arunachala si rivela solo quando è svanita».

Possiamo renderci conto di questo aspetto anche attraverso la semplicità con la quale accoglie i racconti o gli eventi sorprendenti e miracolosi, senza volerne negare la natura o accertare l’attendibilità, ma allo stesso tempo senza cadere nel miracolistico, attribuendo ad essi chissà quale straordinario significato. Essi di fatto non sono che lila, gioco del Signore. E del resto non è forse tutto l’universo sensoriale niente altro che il lila del Signore? Che senso ha cercare conferme o indagare su questa o quella manifestazione dell’Essere, quando in ogni istante esso si manifesta in tutta la sua potenza all’occhio che riesce a vederlo? Il richiamo a una vita semplice e a una povertà evangelica, è sempre stato molto forte in Abhishiktainanda fin dai primi anni della sua vocazione ed è sicuramente attraverso questo canale che l’india ha cominciato a esercitare su di lui il suo potente fascino.

Nel monachesimo hindu, rimasto inalterato da millenni, incurante dell’evoluzione del mondo e del susseguirsi dei secoli, egli ha sempre visto l’immagine del monachesimo cristiano delle origini. Al di fuori di ogni istituzione o legame, il sadhu, su approvazione del suo guru, abbandona tutto e vive solo di preghiera e di ciò che il Signore, attraverso le mani dei suoi devoti, vorrà donargli. E proprio l’assoluta radicalità con la quale viene vissuta in India la vocazione alla vita monastica, o meglio al sannyasa, che affascina Abhishiktananda.

Il sannyasa costituisce una delle quattro asrama o fasi che scandiscono, secondo la tradizione vedica, la vita di un bramino. Le fasi, della durata di venticinque anni ciascuna, prevedono l’educazione alla scuola del guru (Brahmacharia asrama), l’assoluzione degli obblighi di padre di famiglia (Grihastha asrama), il ritiro in silenzio e meditazione nella foresta (Vànaprastha asrama) e in fine la grande rinuncia (Sannyasa asrama). All’ingresso in questa fase finale, il bramino getta nel fiume i suoi capelli e il filo sacro, segni dell’appartenenza alla casta più elevata. Così facendo egli, libero da ogni vincolo mondano, abbandona la sua casta, i suoi beni, la sua famiglia, la sua storia, e tutto ciò che fino ad allora lo aveva identificato come individuo. D’ora in poi le parole «io» e «mio» non rientreranno più nel suo vocabolario, non avrà una fissa dimora ed elemosinerà quotidianamente il cibo necessario per il sostentamento del proprio corpo.

Queste austerità così come il kavi, il colore ocra delle vesti, non sono che il segno esteriore della vera rinuncia, quella al proprio ahamkara, il proprio ego. Nonostante già da due anni vestisse il colore della grande rinuncia, fu solo ad Arunachala che Abhishiktananda sentì di essersi in qualche modo conformato a ciò che esso significa. «Ho trascorso le ultime due settimane in un meraviglioso sogno. Ho vissuto quasi totalmente come un monaco hindu e non più come un sannyasin dilettante, come sono stato tanto a lungo. [...] È la prima volta che mi sono davvero pienamente conformato all’ideale di un sannyasin-hindu in solitudine, silenzio e povertà».

Tuttavia fino all’ultimo egli si rammaricò di non essere stato in grado di rispondere pienamente a questa chiamata, di non aver avuto la forza o il coraggio di essere uno dei tanti sadhu che popolano i templi o gli eremi dell’India: «Perché ci sono tante cose che mi trattengono, che me lo impediscono?» Nell’ideale del sannyasa, Abhishiktananda vede l’unico vero canale di contatto tra cristianesimo e induismo. Il profondo incontro tra le due tradizioni può esistere solo al di là di ogni distinzione di religione o cultura, a livello di dell’esperienza dello Spirito che è esperienza dell’uomo nel suo vero essere. E dunque è solo attraverso il modello del sannyasa e la condivisione del suo totale abbandono che può avvenire la vera conversione e la vera evangelizzazione dell’India.

Affinché un messaggio venga accolto come un reale messaggio di salvezza, infatti, è necessario che colui che lo trasmette sia riconosciuto come persona santa, come testimone dell’Assoluto e in India non può essere realmente considerato santo colui che ancora possieda qualcosa in questo mondo. «Gandhi diceva che, per molti, conversione significa “trousers, topi, beef” (pantaloni, casco coloniale e carne di manzo) e nella battuta, ahimè, c’è del vero!» L’evangelizzazione di stile colonialistico che impone un adeguamento al costume europeo e l’adesione a un culto occidentale non potrà mai costituire un possibile punto di incontro. Il dharma hindu, ben lontano dall’essere un ostacolo, rappresenta anzi un solido substrato per una profonda comprensione del vangelo.

«I preti cristiani» scrive Abhishiktananda «non dovrebbero cercare di diventare né dei pandit (sapienti), né sacerdoti dedicati al tempio, né di rivaleggiare con i tecnici d’ogni tipo che lavorano a progetti di sviluppo; ma dovrebbero piuttosto scegliere di essere, alla maniera dei sannyasin d’un tempo e d’oggi (monaci rinuncianti), il segno manifesto fra gli uomini della presenza dello Spirito nel mondo». E davvero, attraverso la mano del povero che depone le sue devote offerte ai piedi di loto del sadhu bianco o lo sguardo dei bambini che si siedono in silenzio per avere il suo darshan, l’India pare aver riconosciuto come segno vivente della presenza quel monaco cristiano hindu che celebrava la santa eucaristia sulle rive del sacro Gange o nella penombra delle grotte di Arunachala.

(Dalla prefazione originale di Arrigo Chieregatti) *Questo libro traccia un ritratto dei diversi devoti del Maharshi, dei ritratti che sono tratteggiati diversamente dai libri in cui solitamente li ritroviamo, perché, per la prima volta, li narra un personaggio completamente estraneo all’atmosfera del Ramanasramam e, pertanto, non dandoli per scontati, ci mostra alcuni aspetti che i soliti narratori hindu, sottovalutandoli, non li hanno mai riportati, ritenendoli irrilevanti. È un libro decisamente interessante per chi volesse approfondire l’atmosfera che circondava Arunachala nella prima metà del secolo, per comprendere chi fosse e con chi si accompagnasse Sri Ramana, quando ancora non era noto in Occidente come il Santo della montagna.

News Letters - Vidya Bharata