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Dhyana e Jnana Yoga nell'Advaita (1/2)

Il termine yoga viene dalla radice “yuj”, “congiungere” o unire, con riferimento alla congiunzione o unione con la Realtà ultima o con il Dio-persona. Conseguentemente questa parola viene usata anche per indicare i vari percorsi che conducono a questa meta. È questo il motivo che oggi si parla di diversi yoga, quali ad esempio, il karma-yoga, bhakti-yoga, raja-yoga, jnana-yoga ecc.. Quando il termine yoga si usa, invece, da solo, senza alcuna qualifica, si intende una delle sei scuole ortodosse della Filosofia indiana: il sistema Yoga di Patanjali, strettamente connesso alla scuola filosofica del Sankhya che è insieme un dualismo qualitativo ed un pluralismo numerico. Crede in due tipi di categorie di Realtà, una natura primigenia (prakriti) e lo Spirito o Sé (purusha). Questi sono opposti l'un l'altro.

Il Sankhya sostiene che c'è una molteplicità di anime. Lo scopo della vita, secondo questo sistema, è la liberazione dell'anima dai legami di prakriti e delle sue spire. La tecnica attraverso cui questo viene fatto è insegnata da Patanjali nel suo “Yogasutra”. È la mente, che è una delle sue spire, a prendere in trappola l'anima e farle dimenticare la sua vera natura.

Se l’uso della mente è controllato, le errate identificazioni dell'anima con le sovrapposizioni della natura (prakriti) cesseranno. Patanjali delinea nella sua tecnica otto passi. I primi due consistono in un addestramento morale, yama (restrizioni) e niyama (osservanza di certe regole). Il terzo passo esamina le asana (pratica di posture fisiche), il quarto consiste nel pranayama (regolazione del respiro), mentre il quinto è il pratyahara (ritiro degli organi sensoriali dai rispettivi oggetti). Sono gli ultimi tre a costituire il vero e proprio Yoga:  dharana (fissa attenzione), dhyana (meditazione) e samadhi (concentrazione che conduce all’immobilità mentale). 

Secondo l’Advaita lo scopo finale da realizzare (moksha) è la Conoscenza (Jnana). Lo Jnana-Yoga non è la via del mero intelletto, come, sfortunatamente, viene interpretato da molti. È vero che è necessario un intelletto acuto per seguire questo percorso, ma è si tratta di un intelletto già purificato e scremato da tutte le passioni.

Sono quattro le principali qualifiche necessarie prima di iniziare il percorso di conoscenza: la discriminazione tra ciò che è eterno (reale) e quanto è non-eterno (non reale), il distacco dai godimenti che sono limitati e fugaci, le virtù come calma ed autocontrollo, la brama per liberazione. La discriminazione è necessaria per discernere il vero senza identificarlo erroneamente con i suoi aspetti; è detto viveka. Il distacco, la seconda qualifica, è il rifiuto dei piaceri di questo mondo o dello stesso mondo paradisiaco, comprendendo che queste sono invero le fonti del disagio; è vairagya. La terza qualifica comprende le sei virtù di cui si necessita l’acquisizione: sama, la calma, il porre freno alla mente; dama, il controllo sugli organi dei sensi; uparati, rinuncia alle azioni; titiksha, la fermezza interiore di fronte alle avversità e diversità, quali il piacere ed il dolore; sraddha, la fede nell'insegnamento Vedanta; samadhana, la concentrazione. La quarta qualifica è il desiderio ardente per la Liberazione, mumukshutva, e può essere in due forme: un vago desiderio o un desiderio intenso, in altre parole una vera bramosia. Solo colui che è dotato di queste qualifiche è pronto per il cammino vedantico.

Il percorso consiste di tre fasi; sravana l’ascolto dei testi sacri, manana la loro riflessione e nididhyasana la continua meditazione. Di questi solo manana può dare l’immediata conoscenza. 

Ci sono due scuole di Advaita post-Shankara. La Vivarana concorda con Suresvara e sostiene che è sravana o l’ascolto del testo sacro, mahavakya lo strumento diretto di liberazione. La scuola  Bramati , invece, sostiene che nididhyasana o prasankhyana, la meditazione continuata è il mezzo di liberazione. Questa scuola obietta che sravana produce una conoscenza solamente indiretta. Vachaspati, autore del Bramati, che caratterizza la mente come un organo di senso, afferma che la meditazione profonda è il karana (mezzo) per l'intuizione dello Stesso.

L’avidya può essere rimossa solamente da una conoscenza immediata. La testimonianza verbale non è capace di fare questo, mentre la conoscenza indiretta ottenuta grazie alle testimonianze verbali può essere tramutata nell'intuizione diretta solamente da bhavana o meditazione. Suresvara nel suo Naishkarmya-Siddhi esprime il suo disaccordo con questo punto di vista. L'immediatezza della conoscenza attraverso la testimonianza verbale dipende dal carattere dell'oggetto di conoscenza. Se il contenuto di sravana è immediato, allora può aversi la conoscenza diretta. Se il contenuto è il Sé, che è ancor più diretto, allora possiamo averne un’esperienza immediata dall'ascolto della mahavakya.

All'obiezione perché non si abbia subito questa esperienza all’ascolto del sacro testo, la risposta è perché ci sono ostacoli sulla via. Questi possono essere delle conoscenze errate quale il confondere la non-verità per la verità o la mancanza di fiducia nell'insegnamento upanishadico. Quando questi sono rimossi e non ci sono più, allora la sravana del mahavakya condurrà alla esperienza immediata del Sé. L'esempio dei dieci viaggiatori è attinente. Attraversano un fiume e giunti dall’altro lato si contano scoprendo con grande costernazione che sono solo nove. Un passante che li osserva, dice a colui che contava, che è proprio lui il decimo che manca all’appello. Così sono tutti nuovamente felici. L’errata conoscenza di essere rimasti in nove è stata rimossa. È bastato l’ascolto dell’affermazione dell'amico e averci creduto, per arrivare alla realizzazione che erano sempre stati dieci e non poi nove come avevano creduto. 

Come può essere compreso un mahavakya che dice “Tu sei Quello”?. Quello è Dio, Tu è l’individuato e “sei”  non è altro che l’indicatore di identità fra i due. Ma come può l'anima limitata essere identica con l'onnisciente e onnipresente Dio? La risposta è semplice. Non si afferma l'identità dell'anima con Dio. Poiché non ci può essere identità tra i principali significati delle due parole noi dobbiamo ricorrere al significato secondario. Quello che si insegna non è che l'anima e Dio sono uno.

La maggior parte di noi pensa a Dio come se avesse una determinata forma e certe qualità divine. Pensiamo a noi stessi come moltitudine e limitati dall’individualità, etc. Il mahavakya sottintende che Dio è oltre forma e le qualità ed il così detto individuo, libero da limitazioni, è non-separato, non-diverso e pura coscienza. Così il Brahman e l’atman sono uno e lo stesso. All’ascolto dell'insegnamento sacro della verità (nella forma del  mahavakya) la mente cessa di esistere. 

L'altro punto di vista, quello del Bhamati, come abbiamo visto, sostiene che la continua meditazione è necessaria per trasformare la conoscenza indiretta, ottenuta con sravana, in esperienza diretta. La mente viene considerata come un organo di senso.

La conoscenza diretta è causata dal contatto dell'organo di senso con l’oggetto. Prasankhyana è lo strumento. Attraverso la continua meditazione, la mente entra in contatto con il Sé e produce la conoscenza diretta. La scuola Vivarana non accetta questa argomentazione. Secondo questa scuola la mente non è un organo di senso, ma è di ausilio per ogni conoscenza. L’affermazione di Vachaspati che la mente è un organo di senso è rifiutata dal Vivarana sulla base che essendo la mente il fattore comune in ogni conoscenza, non può essere da sola lo strumento distintivo per un particolare genere di conoscenza. Il Sé, per sua stessa natura è diretto. Quindi perché dovrebbe essere necessaria la meditazione per renderlo immediato? Cosa è prasankhyana? È la ripetizione di quanto ascoltato e la sua riflessione. Come può la ripetizione provocare l'esperienza diretta? Non si osserva che eccellenza è causata in un oggetto dalla ripetizione mera di un pramana. Se il mahavakya, ‘Tu sei Quello’ non ha il potere di causare l'esperienza diretta come si può acquisire questo potere con la mera ripetizione? 

Anche se le due tradizioni post-Shankara differiscono riguardo allo strumento di conoscenza diretta, dobbiamo notare che concordano sul fatto che lo strumento diretto da realizzare è jnana, la via dell’indagine.

(continua)


Tratto da “Yoga: I suoi vari aspetti" - Edizioni Ramakrishna Math - Madras)
Traduzione a cura dell'Associazione Italiana Ramana Maharshi