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Dhyana e Jnana Yoga nell’Advaita (2/2)

Ultima Parte

Vediamo adesso a grandi linee il significato dei mahavakya. Evidentemente i significati espressi delle parole non portano alla dottrina dell’identità, come abbiamo visto prima. Il Sé individuale, e condizionato, limitato dall’intelletto e dall’ignoranza non può essere lo stesso onnipotente Isvara. Ma quando capiamo il significato secondario delle parole che esprimono questa identità noi realizziamo che entrambe le parole, in ognuno dei mahavakya, si riferiscono alla stessa Realtà. Spogliato delle aggiunte estranee il così detto individuo ed Isvara sono esperiti come essere identici. Questo è quando conoscenza limitata e individualità da un lato e Creazione e Creatore, ect.., dall’altro, sono riconosciuti essere delle mere sovrapposizioni sull’ Unico Sé.

È molto confortante che anche nei tempi moderni esistano saggi che confermano i sacri insegnamenti dei nostri antichi. Sri Ramana Maharshi, per esempio, è in perfetto accordo con la posizione sostenuta dalla tradizione. Quando la prima conoscenza sorse in lui, ancora non aveva avuto alcun addestramento spirituale. Quindi il suo insegnamento costituisce una indipendente conferma della verità del nostro sacro sapere. Secondo Ramana, lo jnana-yoga ha otto passi come lo yoga di Patanjali.

Lui spiega che i primi due passi, yama (regole di astensione) e niyama (regole per le osservanze) sono gli stessi per entrambe le discipline. Ma per quanto riguarda le asana (posture corporee) non vengono date regole, perchè nessuna postura potrà favorire il percorso di conoscenza o jnana, che può essere praticato in ogni momento e in ogni luogo. Nel percorso jnana, come nel pranayama, l’esalazione serve a rinunciare ai nomi e alle forme, l’inalazione per comprendere l’aspetto di realtà (sat-cit-ananda) che pervade tutti i nomi e le forme. La ritenzione del respiro, sta per mantenersi su quella Realtà, mentre si assimila quanto è stato preso. Pratyahara è il passo successivo ed è interpretato dal Maharshi come “senza mai essere nella mente”. Così per il karana che ci avvisa di “trattenere la mente nel cuore, così che non vaghi”, mantenendo fermo il concetto già appreso “io sono il sat-cit-ananda, Atman”.

Dhyana o meditazione significa consolidare l’osservazione del Sé. Il samadhi secondo il Maharshi, è lo stato naturale dell’Autocoscienza. Questa è moksha, la liberazione. Comparando i due percorsi, jnana-yoga e lo yoga della concentrazione e meditazione, Sri Ramana fa la seguente osservazione: “Il percorso della conoscenza equivale ad addomesticare un toro indisciplinato mostrandogli un fascio di erbe; quello yogico lo addomestica ed assoggetta”.

Così per giungere al nostro naturale stato, che è liberazione, non c’è altro strumento che l’indagine sul Sé. Il controllo del respiro e la meditazione che comportano il controllo della mente (yoga) possono determinare una momentanea sospensione della mente.

Nella sua Upadesa-Saram, Sri Ramana dà l’insegnamento in forma concisa e di quintessenza. L’azione, non importa se sottile o mentale, non conduce alla liberazione. Ma le azioni compiute senza l’attaccamento ai loro frutti, azioni dharmiche e devozionali, aiutano a pulire la mente e renderla capace per iniziare il percorso di conoscenza.

Questo punto di vista non è condiviso dalla scuola Mimamsa che sostiene che il fine supremo può essere raggiunto solo attraverso l’esecuzione delle azioni prescritte dai Veda. Concordano che la liberazione implica la libertà dal karma sia dalle azioni che dai frutti delle azioni (meriti o demeriti). Ma la liberazione o moksha può essere ottenuta solamente ottemperando ai doveri prescritti nei Veda.

Chi cerca la liberazione dovrebbe comunque tenersi lontano dai riti facoltativi e dagli atti proibiti in modo da non acquisire meriti e demeriti recenti. Egli dovrebbe officiare tutti i riti, mentre vive, sia quelli obbligatori che occasionali in modo da evitare ogni demerito. E quando il corpo cesserà all’esaurimento del karma, di cui è un effetto, si raggiunge moksha, Così, secondo la Mimamsa, il karma è l’unico mezzo per ottenere la realizzazione, moksha.

Questa scuola ammette, che nei Veda sono presenti dei testi non-ingiuntivi, come “Tu sei Quello” [Tat Tvam Asi], ma sostiene che questi testi non hanno alcun senso indipendente dal contesto, pertanto andrebbero considerati in senso elogiativo o di condanna e dovrebbero essere interpretati in associazione con un’ingiunzione.

La replica Advaita è la seguente. È solo colui che ha rinunciato a tutti gli attaccamenti alle azioni che è qualificato allo studio dei testi Vedantici e ne può trarre profitto. L’effetto del karma è la prosperità, un qualcosa che viene in essere finito ed instabile. Lo scopo di Vedanta, come insegnato nell’Upanishad, non è quello che viene in essere finito, ma la liberazione (moksha) che è eterna. Quando noi parliamo di “realizzazione”, lo affermiamo solamente figurativamente.

In verità la liberazione è la natura eterna del Sé. È l’ignoranza metafisica che determina questa errata comprensione. Non appena l’ignoranza è rimossa c’è la liberazione. Non è una nuova acquisizione, è la realizzazione di quanto è già là. Qualsiasi cosa causata da una azione ha carattere provvisorio e determina a sua volta delle conseguenze successive.

Quindi ci troveremmo ad avere derivazione, attaccamento, purificazione e modificazione. La liberazione è diversa da questi. Il Sé che è Autorisplendente, non è originato, né ottenibile, né può essere purificato o può essere cambiato. Il Brahman non rientra in alcuna di queste categorie. L’eterno è sempre là, indefinibile, sempre puro nella sua stessa natura, mai sottoposto a cambiamento.

C’è un altro punto di vista, chiamato Jnana-niyoga-vada, che sostiene che le ingiunzioni presenti nelle Upanishad dove si difende la meditazione, sono di suprema importanza. Sono combinate le asserzioni sull’Atman e il Brahman con le ingiunzioni sulla upasana. Secondo loro il Sé è “apprendibile”, ma questo insegnamento è sussidiario alla meditazione.

Perciò il senso delle Upanishad che costituiscono lo jnana-kanda è il niyoga. Ai seguaci di questa scuola l’Advaita replica che è la nescienza la causa di tutto il male, inclusa l’apparente unione dell’anima con le impressioni residue generate dalle azioni precedenti. Se questa sovrapposizione sul vero Sé non è rimossa dall’intuizione diretta, nessun periodo di meditazione potrà mai rimuoverlo. La meditazione è un atto e in quanto tale rientra sotto la stessa categoria dell’inganno, come può questo evento indirizzare alla realizzazione del Sé?

Anche se karma e dhyana non possono essere degli strumenti diretti di liberazione, sono estremamente utili nel preparare l’aspirante al passo finale. La Via dell’Azione (Karma), sotto forma di doveri religiosi e di servizio sociale, quando senza alcuna aspettativa nei confronti dei possibili risultati, purifica la mente; la meditazione abilita la mente alla concentrazione e ad indirizzarla su un unico punto, in modo da deviare l’attenzione lontano dalle cose materiali verso il Sé interiore. Il Dhyana-yoga, senza dubbio è molto utile al percorso di conoscenza.

Comunque, l’autore del Panchadasi compara il Dhyana-Yoga al Samvadi-bhrama che è un concetto erroneo, che nonostante ciò produce un fruttifero risultato. L’esempio dato è che sia la luce della lampada che la luce di una gemma preziosa possono essere confusi con una gemma. In entrambi i casi si tratta di un inganno.

Ma la persona che, confusa la luce di una lampada con una gemma, una volta avvicinatasi, non troverà niente di prezioso, mentre quella che ha confuso il brillare di una gemma per la gemma stessa alla fine trova la gemma. Quindi l’ultimo è il caso di un inganno che diviene vero. Il percorso di meditazione non dovrebbe essere sottovalutato, ha ragione di essere perché la maggior parte di noi non è pronta a seguire il percorso di conoscenza. Solamente, il dhyanayoga deve essere considerato nella corretta proporzione nei confronti del metodo finale verso liberazione.

Anche se nel Panchadasi  è dedicato un capitolo al dhyana-yoga, dove viene comparato al samvadi-bhrama, questo testo non differisce dalla posizione principale dell’Advaita: jnana è lo strumento diretto per la liberazione.

Vidya Bharata - Tratto da “Yoga: I suoi vari aspetti” - Edizioni Ramakrishna Math - Madras